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dice perché se tu devi cambiare ‘sto contatore del cazzo che non era nemmeno intestato a te ma ad un pover crìst di egiziano che sparì che di nome si sa poco ma forse MTR misero padre di famiglia però co’ ‘ste tre figlioline che giravano per casa mezze stracciate cioè uno c’ha misericordia però detto luogo pare la tana di tassi sozzi tuttavia il contatore maledetto non è intestato al medesimo ma forse a certa Irma che nemmeno lei è ripescabile ma poi ‘sto arnese esso è fuori norma vecchio storto pure cioè dentro casa mentre dovrebbe trovarsi fuori all’aperto come quello là che poi l’accoltellarono tuttavia c’ha un numero di matricola forse taroccato che poi non sai a chi telefonare e ci passi mezza giornata a romperti le tartacule ed a bestemmiare e ‘ste società  dette fornitrici che poi sarebbero in parte a capitale pubblico quindi la truffa è pure dello Stato che c’ha messo ai posti dirigenziali dei cognati ovvero parenti serpenti di partito co’ prebende pazzesche poi ci lucra assai più del dovuto alla faccia delle privatizzazioni che chissà per cui tu stai lì al telephòn ‘n’dove suona ‘na musichetta fastidiosa mezzo rock di bassa lega che dico io ci vorrebbe poco e ti dicono poi che prima devi fare un contratto e ci vien il tecnico  ad aprire ‘sta chiavetta poi in secondo luogo ritelefonare laonde per cui ti spostano chissà quando il contatore e ci perdi un sacco di tempo: basterebbero imprese private certificate che ti spostano il contatore secondo norma che ci vuole ‘na mezzora di lavoro e ti fanno il contratto e segnalano a chi di dovere.
Ma che paese è questo?

Andando a scovare tra le cose nascoste dietro la facciata del blog, ovvero cercando tra i termini, parole che qualche passeggero ha inserito attraverso un motore di ricerca per arrivare qui, ho trovato gli arcani termini:

“figa insabbiata”

A tal punto pure io ho cliccato su tali parole per vedere che cosa saltava fuori ed ecco ricomparire dagli archivi o fondi  di magazzino di questo oceano di testi una poesia bella: non so chi l’abbia scritta forse la nostra Opi/Azu alias Irene. Eccola:

fino a 4
26/02/2005
.
uno
Mi trovo in un’epoca della vita
in cui non basta più ridipingere il muro di bianco.
Così darò il via ai lavori interni alla casa
assicurando una visita decente
a chi dovesse arrivare all’improvviso.
E con una punta di disperazione in più
rispetto alla semplice decenza
farò sistemare il mobilio
a pianta larga
eliminando i souvenir africani.
Curerò che chi entri non pensi
che questa era una casa interiore.
.
due
Mi trovo in un’epoca della vita
in cui dare un significato alla vita
Epoca dei viaggi e delle trasmigrazioni
volontà di andare confusamente lontano.
Farsi re farsi papa farsi papalagi.
Farsi donna grossa sulla riva del mare
le patelle azzeccate ai capezzoli
la figa insabbiata.
Farsi miserrima regina di Calcutta.
Innamorarsi di un vecchio con lunghi baffi spioventi,
un ciarlatano.
Ricominciare per avvenuta rinascita
anche senza il senno di poi.
Sogno una terra esotica vergine e semplice
per muovere nuovi passi
dentro una nuova natura.
.
tre
Mi trovo in un’epoca della vita
In cui non avendo più voglia di fare niente, di sapere e di conoscere niente,
ma senza morire,
che potrei fare?
Potrei vivere di ricordi.
Mangiare ricordi a pranzo
uscire con un ricordo il sabato sera
andare a dormire con un ricordo a fianco.
Cannibale dei miei ricordi
mangiandomi un poco per volta la memoria
potrei starmene per molti anni
senza fare più niente.
Vecchissimo infante appagato
con la testa svuotata di tutto.
In un angolo poche feci
rimasugli di cose rammentate a metà:
un baffo sette bottoni un dito dentro una torta alla crema.
Allora potrei cibarmi dei ricordi degli altri.
“Raccontami”  direi a bocca aperta
stupendomi e poi masticando.
La fine?
Inghiottito il ricordo di ricordare.
.
quattro
Mi trovo in un’epoca della vita
in cui penso non è meglio così che colà
peggio soli che ben accompagnati
il diavolo fatte le pentole
batterà i coperchi in allegria
e la banda e la banda passò
nel cielo il sole tornò
quando la banda passò.
Sul fuoco bolle il fuoco.


Non è stata sola la questione di Gualtiero, come hanno detto in tanti, in troppi per semplificare le cose.
È una visione dell’anima che la gente non sente, non ha, e non vede nel profondo quindi, non è in grado di spalancare i propri occhi di dentro sugli stracci che ci portiamo chiusi nel petto.
Io ho visto fino in fondo, ma prima ero cieca, come tutti, quasi tutti.
All’inizio ero una bambina, anzi come una bambola ritagliata nella carta, ero una misera vagabonda che Gualtiero si è comprata per dodici pezzi d’oro da un vecchio che si diceva mio padre.
E io ero felice di andare via, di volare in quella casetta col giardino dove giravano farfalle e c’erano statuette di angeli strani in mezzo alle azalee. Dovevo però fare tanti servizi, tenere pulita la casa, spazzare e cucinare e prendermi addosso il peso di Gualtiero che era grande e grosso, e puzzava di capra di rum di sapori strani di fiori marci di erba secca di fieno di fermento di fichi appassiti di stalla di vacca di cani.
Ma non era tanto questo, non mi faceva soffrire.
Meglio sempre che stare dal vecchio che faceva la bocca dell’orco del lupo mannaro e digrignava i denti e grugniva: Aurrrgghhhhhhhh!
Gualtiero mi diceva a volte: o mio fiorellino appassitello scalda questo cuoricino distrutto dalle disgrazie dalle mamme dalle nonne dalle zie che tanto mi vollero male. Poi mi toccava salire su quella sua pancia aguzza e farlo cantare cantare cantare anche fischiare nelle orecchie:
Vittoriana Vittorina
rosellina appassitella
donami la tua tettina bella

Poi arrivò il segretario Nelson coi suoi abiti stirati bianchi giallini e l’orologio al taschino e le scarpe a modino col lucido fino, dopo due settimane era già lì che si baciavano si strofinavano si mordicchiavano si lustravano i pancini, lui e Gualtiero. E poi vennero le amiche magre di Nelson e la bella famiglia dei segretari, segretarietti e lucidalabbra e rum di Antigua e vino di Oporto e fumo di Casablanca.
Fumo sempre fumo dappertutto.
E portavo il tè lapsang souchon il vino la pasta le tazze i piatti sporchi puliti lavati lustrati asciugati i sigari le pasterelle i fiori, io fiorellino rosellina ormai marcia, io mezza morta di sonno tra cucina e conegrina.
Poi Gualtiero mi volle appiccicare a Nelson e ai suoi amichetti amichette, strofinandosi, e mi ficcavano in mezzo, tiravano giù il mio vestito mi frugavano in mezzo alle gambe, ridevano tanto, ubriachi marci che erano. Marciume sentivo marciume, quell’odore di fiori putrefatti mi avvolgeva, mi sortiva anche di dentro, dal petto, dal cuore.
E piangevo tanto che mi inzuppavo la camicetta.
Una volta, salita di sopra, davanti allo specchio, mi stracciai questa camicia rosa di cotonina per vedere per sentire lo sfacelo che mi scoppiava di dentro.

Ed ho visto, visto e toccato con spavento.
E tra i miei seni stava e si muoveva una cosa nuova, un’altra camicetta: velo biancastro macchiato di bruni sudori, di ruggini, aloni sanguinolenti, come una benda stracciata che avesse avvolto un ferito. Ficcai le unghie, mi graffiai profondamente ma non riuscivo a strapparmi di dosso l’orrore, le lacrime e  il nuovo sangue colavano ancora e andavano andavano inzuppavano marcivano il petto e il suo velo e non lo lavavano.
Ed ogni volta andavo di sopra e guardavo e mi disperavo e vedevo il velo ondulante sporcarsi ancora di più fino a squarciarsi a mostrare un buco nerastro come una caverna purulenta di dentro che mi perforava e bruciava, si ampliava e fumava un poco come una fumarola che avevo visto da piccola a Pozzuoli.
Andavo a dannarmi a perdermi, finché il buco di dentro allargandosi mi avrebbe tutta rosicata smangiata divorata ed io sarei bruciata lentamente in un falò di sporchi stracci: quella era ed è la povera anima mia

Nella camera di Gualtiero sono andata di corsa a prendere quella grossa pistola che teneva nel cassetto del suo comodino, poi tenendola con due mani, come mi aveva proprio lui insegnato, sono scesa urlando ed ho sparato fin che ho saputo, potuto e ho tirato per primo a Nelson poi a un altro segretario che c’aveva vicino, poi all’amica Cecìna e poi a Gualtiero che scappava in cucina ed è caduto giù, si è disfatto come una sacco pieno di sassi, lui colla sua bella camicia azzurrina tutta macchiata di chiazze, non più ariosa e sventolante ma bucata appiccicosa incollata fradicia di sangue.

Ora apro la camicia e vedo ancora la mia anima: non è più sozza di quegli schifosi aloni, ma un foro solo, eroso sui bordi, la buca e mi duole, mi fa tanto male.

Nel coso post che c’è prima c’è ‘na storia mia lunga che uno la guarda e dice: che barba, dopo tre righe, e poi se ne va ché i cosi lunghi stufano la gente.
Per cui, ficco qui il riassunto:
C’era ‘na volta uno mica scemo, però, che si vestiva da prete per fregare la gente; l’arrestano due o tre volte. Poi s’incontra ni nun prete vero che lo riconosce per via ch’era suo compagno di scuola, e ci dice: aiutami a fare il parroco, orcogiuda! Lui mezzo convinto ci sta e fa ‘na predica favolosa vestito da diacono però i Carruba l’inculano lo stesso.

      Amedeo mi aveva allevato, mi ha cresciuto nel sacro disprezzo della legge ed in una visione del mondo, cioè degli umani, piuttosto dicotomica. L’essenza è questa: noi ladri & truffatori ci appropriamo dei beni altrui perché gli altri sono fessi e si fanno fregare, quindi il difetto naturale sta solo dalla loro parte, noi siamo abili e fantasiosi e gli altri dei coglioni.  Non faccio per dire, ma Amedeo era un povero mezzo zingaro che aveva sicuramente ereditato questa netta idea scissoria da suo padre, o chi per lui.
Io sono stato ammaestrato prevalentemente nell’arte di convincere con una melliflua suasione i civili predisposti dal fato ad essere turlupinati. Non per niente Amedeo, quando è morta mia madre, mi ha collocato in un collegio di preti, una specie di preseminario, affinché, in luogo più che mai acconcio, apprendessi tecniche ed abilità manipolatorie, ed in più studiassi parabole, testi sacri e tanto latino ch’è, da secoli, lingua più che mai adatta a confondere le poche idee dei miserabili ed a convincerli a commettere molte cazzate.
Il povero Amedeo si vestiva talvolta da prete, e ciò gli piaceva molto, per fare qualche lavoretto, per ben orientare qualche abbiente vedova, per invogliarla ad opere di misericordia, ma era un po’ rozzo sia nei tratti che nelle espressioni per cui questa parte non gli riusciva molto bene e fu arrestato più di una volta con indosso l’abito talare, come allora si usava. Nonostante coteste sue sconfitte, io me lo vedevo molto bene come prete, con queste sue mani giunte al petto, con quel suo breviario, col cappello di quel fine feltro vellutato: mi piaceva tanto di più vestito così.
E fu il mio modello da condurre a perfezione.
Però a sedici anni mi scapestrai da quel malinconico collegio perché non ne potevo più di preghiere, di levate antelucane, di vigilie, di un luogo umidissimo abitato anche da alcune larve pederastiche che mi insidiavano.
E poi mi attiravano tanto le ragazze, ed io loro piacevo, parecchio.
Amedeo non mi rivide molto volentieri, per un po’ mi fece il muso; io penso che in fondo in fondo desiderasse  davvero che mi facessi prete e che non gli girassi più tra i piedi. Allora decise subito di mettermi sotto.
Lui si vestiva da frate, ed io gli stavo dietro, pure io infratacchiato, dicendo buone parole, ammanendo santini, e chiamandolo Padre Severino.
Giravamo per campagne con un’Ape facendo la cerca, ma i guadagni erano davvero magri: molti fedeli erano ormai scafati, certi parroci accorti avvisavano la loro clientela, e poi c’era il fatto del bere: ormai Amedeo era quasi alcoolizzato e sovente sparava stupidaggini e ciò mi creava gran rabbia, ed anche un dispiacere immenso.
Dopo un nostro arresto ed un’altra condanna, dedicata solo a lui, decisi di mettermi in proprio.
Avevo oramai venti anni, ma per convincere dovevo invecchiarmi adeguatamente col trucco, per cui mi ero lasciato crescere una barbetta che brizzolavo un poco. Perfezionai al massimo l’arte di Amedeo specializzandomi in vedove anziane, clienti davvero trattabili.
Mi ero munito di perfetti documenti vaticani, certificati, dossiers ben rilegati in rosso ed oro, che persuadevano le gentili signore ad investire i loro denari in partecipazioni ad opere benefiche della IOR, alberghi e case di ospitalità per pellegrini.
Andava  bene, ero fiero di me.
Praticai in diverse città italiane, vivevo talvolta anche in buoni alberghi, vestendo il talare e non; potei permettermi anche una decente auto blu, ma per questa benedetta macchina mi fregai da solo. Una volta a Milano, per andare più alla grande, ci ficcai una targa falsa della Città del Vaticano, mentre mi spacciavo per tale Monsignor Eusebio Caddù, in omaggio all’insolito cognome del povero Amedeo. Per esagerare mi ero pure munito di cotta nera col bordino rosso, e così, per colpa di un concièrge troppo curioso, anzi sospettoso, mi beccarono e finii dentro un’altra volta.
Io penso proprio che fui così punito, non per aver infranto il codice penale, ma per la mia vanità e la mia superbia.
E così compresi che forse le leggi del Signore e le parole raccolte nelle sacre scritture non erano affatto da sottovalutare, ma parabole evangeliche, salmi, detti profetici andavano ben tenuti a mente non solo come strumenti dell’arte.
Tuttavia dopo uno schifoso anno di gabbio, mi ritrovai per strada, frastornato e perplesso. Ero talmente sbalestrato che finii per chiedere ospitalità in un convento benedettino, su per certe montagne, ove dei frati severi restauravano libri ed io spaccavo legna, alimentavo stufe, andavo a fare la spesa, aggiustavo le grondaie ma non riuscivo a concentrarmi nella preghiera, purtroppo.
Me ne andai con la bella stagione, arraffando per me, scopo rimborso fatiche spese, un bel codice miniato che rivendetti a Zurigo, ad un ottimo prezzo.
Mi riprocurai dunque vestimenta e suppellettili adeguate riprendendo la mia carriera ecclesiastica, cercando di esercitare la virtù della modestia, e di non essere vanaglorioso con i clienti.
Ripresi dunque le trasferte in provincia, specie in Italia centrale, ove i fruitori del mio servizio parevano più bonari, anzi sempliciotti.
Ma non so per quale mio sbaglio dopo altri due anni di onorato servizio fui fregato lo stesso da un’avveduta, ed assai colta vedova, che m’incastrò sulla parabola del figliol prodigo, e sul sito di un certo seminario, e mentre mi preparava il caffè telefonò all’Arma benemerita.
Uscii depresso dal carcere, dopo un altro anno di reclusione: ero quasi disperato.
Non potevo cercare conforto nel Signore, perché, pur non figurandomelo propriamente, in qualche modo lo sentivo e temevo: temevo la sua vendetta, infatti sta scritto che: Io sono un Dio geloso, vendicativo.
Però, per naturale inclinazione ed educazione, non potevo fare a meno di appiccicarmi addosso clergyman e croce: era la mia vita o destino, è la mia parte, la dovevo recitare fino alla consumazione. Da una cara amica, molto  misericordiosa, ebbi un prestito.
Ripresi il mio vagare per i paesi su di un auto all’ultimo stadio di vita, ed ero triste, e bevevo parecchio di più, come Amedeo. Combinai i soliti traffichini da poco, ma non ero presente, entusiasta, convinto come un tempo; mi distraevo, rinunciavo troppo presto ai guadagni, lasciavo sovente i clienti insoddisfatti, o sospettosi.
Una volta me ne stavo scendendo verso sera, a piedi, dalle scale di un paese delle montagne dell’Alessandrino, erto e abbastanza povero, quando un prete vero e proprio, un tipo alto, nerboruto, si presentò presso il mio catorcio. Questi mi mise tutte e due le sue pesanti mani sulle spalle, mi guardò fisso e mi disse, mi sillabò:
Ma non ti vergogni, Vincenzi!
Ci rimasi di sasso, di merda, di stucco e risposi piano, impaurito, che non ero affatto Vincenzi, ma Padre Eusebio Caddù degli oblati di Maria Vergine, e che mi trovavo in quel luogo per una colletta onde restaurare un orfanotrofio in luoghi di missione.
Macchediavolo di orfanotrofio del cazzo! Adesso vieni con me, in canonica Vincenzi, ché parliamo, io e te! Ma proprio tu che eri così bravo?! Ti ho riconosciuto e già avevo sentito parlare di te… Adesso vieni e stai zitto!
Era un mio compagno di quella specie di preseminario, era stato un giovane non tanto dotato per le lettere, e, diciamo così, un po’ rude: tale Carlo Prestigiacomo. E tremavo nel risalire su per le scale verso la antica chiesa parrocchiale mentre lui mi teneva abbrancato per un braccio.
Mi impose di sedermi su una vecchia sedia impagliata e si pose di fronte a me con la faccia a trenta centimetri dalla mia. Mi squadrava.
Fu un incontro senza scontri.
Lui mi parlava, mi offriva un caffè, un bicchier di vino, era un fiume di parole. Si muoveva disinvolto per quella vetusta, piccola casa canonica, mi cucinava pure un’ottima cena composta da saporita pasta con verdure saltate e poi salame e formaggi, e parlava, diceva, rievocava la nostra antica amicizia, (se mai vi fu); mi dava pacche, rideva, pareva contento di rivedermi e non minacciava di denunciarmi.
Quando gli sembrai tranquillo, rilassato di nuovo mosse le sue manone verso le mie spalle e mi disse:
Ed ora vengo ai fatti. Non ti piacerebbe, non ti andrebbe di darmi una mano qui? Io sono solo, figurati se ho un viceparroco! Siamo pochissimi ormai, come sai bene, ed io, invece, so bene che tu sei, sotto sotto, un brav’uomo e pure dotato di una mente perspicace. Io ho bisogno di un aiutante, diciamo così di un diacono, uno che mi aiuti nell’assistenza di tanti poveri diavoli anziani che vivono in questo paese mezzo abbandonato con una pensione da fame. Io sto zitto: non mai visto Eusebio Caddù, però tu facendo appello al tuo buon cuore potresti aiutarmi. E portare i conforti della fede, e dire due buone parole a ‘sta povera gente che ha bisogno di un filo di speranza, e magari occuparti del catechismo, anche!
Queste parole: aiuto e aiuto, mi sconvolgevano.
Non sapevo come rispondere, tenevo la testa tra le mani, poi confessai:
Ma, Carlo…Carlo, io non so se credo in Dio, come posso recitare questa nuova parte…?
Don Prestigiacomo si eresse sul busto, trasse un gran sospiro e mi confidò:
Vincenzi, anzi caro Giovanni Vincenzi, non so nemmeno io se credo in Dio, e ciò rimanga inter nos, perché è molto grave. Però Cristo mi piace, in Cristo uomo ci credo, cerco di fare il buon cristiano e di applicare un po’ di pietà, misericordia per tutti ‘sti poveri cristi che girano qui intorno. Non è facile, delle volte mi sembra di non farcela, di impazzire. Ero solo come un cane, ora sono riuscito a mobilitare qualche pensionato volenteroso che mi da una mano. Però avrei proprio bisogno di un diacono e non me lo danno: un diacono come te che sa a menadito le scritture, che sa intrattenere, che sa consolare.
Io consolare? – risposi stupefatto – Io so soltanto menare il can per l’aia, io ho usato le scritture per imbonire, guarda: per coglionare, cioè… sedurre! Sono un truffatore qualificato e recidivo. Sono io che ho bisogno di consolazione!
Il prete si eresse sul busto, scosse la testa, fece una strana smorfia torcendo le labbra e silenzioso mi fissò. Osservando la sua mimica, in quel momento ebbi il balenante pensiero che noi due, insieme, avremmo potuto formare una prospera società per azioni, diciamo così, persuasive.
Ma Don Prestigiacomo impedì alla mia immaginazione di correre troppo:
Te, Giovanni, ti dico…potresti consolarti consolando gli altri. Sembra una contraddizione, invece la cosa potrebbe correre… E non è forse vero che gli psicanalisti curano sé stessi curando gli altri? Guarda, Giovanni, che un filosofo, un certo Cioran, ha detto: La religione è un’arte di consolare. Quando il prete dice, agli afflitti, che Dio si interessa del loro sconforto, offre una consolazione che, in fatto di efficacia, non potrà mai trovare equivalenti in dottrine secolari… Questa massima me la sono martellata, inchiodata in testa. Cerca di capirmi…Il mondo è pieno di sofferenze, inzuppato di dolori, il mondo, io non lo posso e non lo so cambiare: io ci metto una pezza, ci metto dei cerotti. Tu, Giovanni, c’hai una buona stoffa…eri uno dei più bravi in collegio… Mettici una pezza, dammi una mano…

Ero quasi commosso. Ed anche stupefatto.
Nello stesso tempo temevo di cadere in una trappola tesa da questo “bravuomo”, questo prete senza dio. Un subbuglio interiore si agitava per tutti i miei organi interni: spaventi, rabbie, asti, invidie affioravano insieme e mi tormentavano, e forse lo si vedeva dalla mia faccia perché Carlo mi diede una manata sulla spalla poi mi allungò un bicchierino di grappa, e poi furono due e tre e non so quanti. Alfine fui accompagnato dal reverendo parroco a dormire in quella che un tempo era la cameretta del viceparroco, e che storicamente fu quella del beato Paolo Ferrero da Cinaglio.
Non dormii affatto bene.
Riposavo molto meglio quando stavo coi monaci benedettini e lavoravo come muratore, facchino e via dicendo. Avevo meno pensieri che mi tormentavano, cioè quelli che chiamano problemi di coscienza.
Ammesso che io avessi una coscienza, ci stavo facendo i conti, in mezzo a quelle alte colline; siccome mediamente mi sentivo abbastanza intelligente ora mi trovavo a dover impiegar questa mia dote in un modo diverso, dovevo dirottare le mie energie verso attività che non ritenevo congeniali, anzi contraddittorie, cioè opposte alla mia vera natura.
E proprio qui, con le parole “vera natura”, indole, carattere, ed il loro senso profondo mi dovevo incontrare o scontrare. Dovevo fare i conti con i miei geni, la mia educazione, formazione, mia madre sparita, Amedeo, il collegio, i preti, i vangeli, gli dei, i santi, i martiri, le sacrestie, le manacce e i cazzi virulenti degli assistenti, le donne, le amiche, i soldi, la mia identità.

Il parroco don Carlo Prestigiacomo mi presentò la domenica seguente, durante la messa grande, come un antico amico, il diacono Giovanni Caddù, proveniente da terre di missione, inviatogli dalla Provvidenza per aiutarlo in momenti tanto difficili per la Chiesa e per la stessa comunità, sicuro che la mia opera sarebbe stata più che mai utile per la parrocchia e per i fedeli. Quindi fui invitato a tenere una sorta di orazione, o autopresentazione, davanti alla balaustra dell’altar maggiore. Portavo i miei soliti abiti neri da prete, ma netti, stirati, corretti, poi, da una bella stola ricamata che mi stava benissimo.
Tenni un’orazione o predica che mi uscì fluentissima con citazioni evangeliche, esempi di carità cristiana e non, anche di solidarietà laica, di fratellanza, pure di amore (parola che preferivo mai pronunciare).
Fui molto applaudito, e ne fui parecchio compiaciuto perché nella mia carriera di falso ecclesiastico mai avevo tenuto omelie dall’altare o da un pulpito. Ora un po’ mi sentivo consolato, anzi quasi realizzato, ed avvertii la pienezza della consolazione che prova un ostaggio che non è stato ammazzato.
Carlo mi fissava sorridente, anzi raggiante, vestito della sua pianeta festiva presso l’altar maggiore; io guardavo i fedeli tra cui alcuni già mi facevano un saluto con la mano mentre uscivano da quella gelida e vetusta chiesa romanica.

Mentre me ne stavo ancora beatamente istupidito dalla mia vanità ebbi due nette percezioni: una interiore ed un’altra visiva.
La prima era un pensiero, parole che correvano scolpite sullo schermo della mia mente:
fino a quando durerà…fino a quando resisterò.. fino a quando?
Il secondo filmato al rallentatore era composto da una sequenza che inquadrava il tenente dei CC Eraldo De Angelis accompagnato da un appuntato mentre cautamente si avvicinavano all’altar maggiore.

Teresa Teresa Teresa la cantava la cantava

come che son ‘mbriàca ‘ncòe,

come ‘na vaca Teresa

Teresa la sta lì, quando è ubriaca la sera, sul balcone e parla di sé come ‘n’altra persona.

E’ svergognata, la porca Teresa. Vuol far sapere a tutti ch’è ‘n’altra persona, adès che ha i soldi per dargliela dentro.

Tanto finiranno presto i soldi, i denari, la moneta! Te lo dico io!

E fosse solo svergognata, la Teresa, che ‘sta putana, a quasi sessant’anni, si porta a casa dei manigoldi di trent’anni, magari anche negri, marocchini, tutti ‘stracomunitari, e poi fumano di quella roba drogata e ci danno dentro a far porcherie che fanno schifo, poi.

E chissà che magari uno di questi maiali ci ficca una coltellata per fregarle la grana e se lo meriterebbe, e farebbe soltanto bene: perché chi di spada ferisce di spada perisce, come dice anche il Vangelo. E anche se lei non l’ha fatto con la spada, col coltello, quella volta c’ha messo del suo, delle sue furbizie dei suoi paesi di montagna dove ha imparato delle diavolerie fin da piccola, ne sono sicura.

E pensare che sua mamma, la Clementina era ‘na brava donna anche se rustica, montanara. Ci volevamo un bene! Ci confidavamo sempre, e lei mi contava, delle magagne dei figli qua e là, e piangeva, delle volte. E mi parlava tanto di questa sua Teresa, la sua prediletta, ‘na donna che dirla come donna fa schifo, e che c’aveva tante qualità, una volta.

E l’era bella davvero, questa qui, la Teresa, un figurino, ‘n bel corpo. ‘N paio di occhi che ti bruciavano. Ancora adesso farebbe la sua figura se si tenesse, se non fosse diventata come ‘na cicciona a forza di mangiare le porcherie nei sacchetti che piglia dagli arabi e da quegli sporcaccioni cinesi, e tutti ‘sti dolciumi, cioccolatini, tortine, merendine.

Adèss sì che ha i soldi per comprarsi le goloserie, le robette, la droga.

La povera Clementina le dava ‘na regola, già, prima.

La sgridava, per suo bene, le faceva delle raccomandazioni, ma giuste, ve’! Lei, per ripicca, per vendicarsi, è arrivata addirittura a darle delle sberle, a sua mamma: una vera vergogna marcia! E Clementina sempre più vecchia e stanca che lacrimava come ’na fontana.

E gli altri figli stavano lontani, non si interessavano ‘n bel niente: uno scandalo!

E lei con la sua pensione magra da artigiana sganciava la grana, che Teresa le rubava anche nel portafoglio, povera donna.

Ma la Teresa, secondo me, l’hanno rovinata le amicizie, sì, quei giovanotti perfidi e viziosi che ci giravano insieme e l’hanno traviata con un sacco di porcherie e poi l’hanno portata in India. E la Clementina, dai, a pagare anche il viaggio fino laggiù e mandarle anche i soldi per posta, che non tornava più, la porca.

E chissà che Teresa, ch’è tornata da quell’India tutta svampita, e con tante balle per la testa, non abbia imparato ‘sti segreti dei veleni da qualche stregone bastardo di quei paesi di ‘gnorantoni!?

Perché, sì, secondo me la Teresa l’ha avvelenata, sua mamma: c’ha messo il tossico nel caffè, ‘sta svergognata ‘sassina! Infatti, che l’abbia imparata in India l’arte de l’avvelenare la gente, non m’importa mica: un bel niente! Però io mi ricordo che quando con la buonanima di sua mamma parlavamo di questo e di quello, e dei suoi paesi su per le montagne di Cuneo, di quei posti selvatici, e ne aveva tanta nostalgia, mi diceva che ai vecchi che imbarazzavano in casa e non lavoravano più loro ci davano, con le moine, una tisana, o ci ficcavano nel bicchier di vino ‘n’erba velenosissima che si chiama ‘conito, non so più, che non ha il gusto cattivo, e poi ti fa morire come uno c’avesse preso un colpo, e nessuno se n’accorge, neanche il medico della questura.

Perché negli ultimi tempi la Teresa sembrava rabbonita e ci dava a sua mamma dei vizi, ci faceva delle smorfie, tutta ‘na smanceria marcia, e prendi il caffettino, mammina, te’ che ti do il liquorino e ‘na goccia di ferneth che ti fa digerire.

E lei, un brutto giorno, la Clementina, ti è caduta giù stecchita in cucina, bell’e morta, bianca come il marmo.

E chiama l’autoambulanza, e sirena, e dottori, e via, e lei era bell’e che stesa accoppata!

Io c’avevo avuto il sentore, sì, che non era ‘na roba giusta, anche se Clementina era più vecchia di me di sei anni, ma son stata zitta con tutti, manco ‘na parola a mia figlia, o a mio genero ch’è uno che la sa lunga, laureato, rispettoso e ha delle conoscenze altolocate.

Neanche un sospetto ho confidato, sono stata scrupolosa e prudente.

Anche per paura: ché se quella porca lo sa, mi fa fare la stessa fine.

Delle volte, verso sera, che è lì che si stira, mezza nuda sul balcone, viene da me e mi fa, tutta smorfiosa:

Ma, cara Tecla, non vuoi che ti porti un caffettino? L’ho appena fatto adesso con la moka da tre tazze!

Io le faccio di no con la testa, le dico che sto bene così, e mi ritiro dentro.

Te lo do io il caffettino a te, brutta schifosa assassina!

Dice che mia mamma faceva le poste.

 Io so cosa sono le poste, Renato no.

Io so un sacco di robe e Renato è scemo forte, per esempio.

Per esempio mi ha detto: tua mamma è una gran bagàssa, anche troia.

Io mica mi sono offeso.

Tanto so tante cose che gli altri non sanno.

E mia mamma fa schifo lo stesso, anche se adesso è tanto vecchia. Dice un casino di porcherie proprio adesso che c’ha l’anzianità, mentre prima era più riguardosa, anche religiosa, diceva anche delle preghiere, anche il rosario.

Però ha ‘na bella pensione che non so come fanno a darcela.

Io invece ho una pensione che fa pena.

Renato mi prende per il culo, sempre. Ma lui la pensione non ce l’ha ancora proprio ed è cretino totale al cento per cento.

Dice che mia mamma faceva le poste e lui non capisce un cazzo di poste. Quando faceva le poste mia mamma mi portava dietro, sovente. Andavamo per esempio da Zì Cavo o Zicavo, non so, che poi era uno con due stanze a piano terra e dietro un magazzino pieno di mobilia e baracche che le rivendeva. C’era scritto là davanti Cavarreda. Loro mi mettevano in cucina a guardare un gatto ruffiano e poi andavano nel retro a fare le poste.

Poi andavamo, magari, anche da Don Fremura o Premura, non so più, un prete vecchio, che stava quasi in campagna dietro ‘na chiesetta scassata. Lui mi dava un libro con tante figure di santi e anche due amaretti buoni, dopo loro si ficcavano nella sacrestia piccola. Poi io, delle volte, sentivo di là, don Fremura che gridava: Gesucristoaiutami! Che magari mia mamma si inginocchiava e lui la perdonava.

C’era delle volte anche il signor Vernetti da andare a trovare, sempre per le poste. Lì era meglio perché ‘sto tipo distinto, aveva un giardino suo, poi, sul davanti, una sala tutta elegante piena di robe da curiosare, vasetti, bomboniere, cartoline, quadri; lui mi ha regalato una volta un libro di storie con delle figure che facevano paura da matti, però.

Un’altra volta mi ha dato addirittura un bacio su ‘na guancia, ma era ruvido.

‘Na volta siamo andati addirittura dal papà di Renato, chiamato ‘l Derviscio, non so perché, ch’era un porco calzato e vestito come suo figlio. Quella volta lì mia mamma ha fatto la posta nel garage dietro le macchine che lui aggiustava, il Derviscio, ma è andata molto male, perché quel bastardo si è messo a bestemmiare e siamo scappati.

Ma tutte le settimane andavamo da quello importante della ditta Guastavigna, che era grande e grosso, sempre col gilè e un toscano in bocca. Lui aveva un bel padiglione moderno dove vendeva trattori, aratri, robe agricole. Loro, prendevano la macchina, e poi mi lasciavano lì in mezzo ai macchinari col suo socio Aldo, e col figlio suo, un cretino superbo dal nome strano come Gerlando, Giorlando, non so più. Gerlando ch’era più grande mi diceva delle porcherie, diceva che suo padre e mia madre andavano a ciulare nella villetta. Io non ne potevo più, perché dovevo stare un bel po’ di tempo, anche due ore, con quel tipo cattivo e maligno che una volta mi ha messo anche una merda di cane secca nella cartella.

Io come ci penso sto male.

Però io poi andavo anche a scuola al mattino con quella brutta maestra che puzzava di sudore come una capra e la chiamavano Dappoggio e mi faceva sempre disegnare delle scemenze e basta.

Renato dice che la maestra Dappoggio era una troia anche lei.

Renato sa troppe cose della mia vita, dice che ne sa più di me.

Io non ne posso più.

Io vorrei andare via da mia madre, ma lei c’ha la pensione.

Se le dico: Vado via di qua perché sono stufo di parolacce tue, lei mi grida: Fanculo, brutto mostro ché per causa tua dovevo fare le poste e nessuno mi voleva sposare più. E se vai via di qua, vai a fare il barbone in mezzo alla strada e neanche un cane ti fa ‘na minestra. E poi io ho bisogno di mio figlio che mi guardi ché sono vecchia e ti ho mantenuto fino adesso a fare una bella sega di niente!

A me mi viene un magone da morire e vorrei ammazzarla, lei, le poste, Renato, quel maiale di Gerlando, la maestra Dappoggio, tutti, anche mio padre che non ho mai visto e magari è già morto anche lui.

Questo racconto scritto l’altroieri, ed  illustrato da me medesimo ieri, è visibile anche qui:

http://barbaragarlaschelli.wordpress.com/2012/02/04/dice-che-mia-mamma-faceva-le-poste-di-mario-bianco-2/#comments

 

Visto che ne viene giù tanta, di neve, pongo qui un racconto mio e di Piera Ventre che scrivemmo nel 2008, e tratta di una neve speciale e del Monferrato:

 

 

La neve che non c’era

Fu quando il Francin spalancò le gelosie sull’alba che vide cadere il primo fiocco. Rimase a naso all’aria, in uno stupore immobile, seguendo con gli occhi, ancora inciuccati di sonno, quel lento volteggiare. Pareva un pianto, quella neve, che si posava sui fichi e sui filari d’uva. E di settembre, tempo di vendemmia e di fantasmi.

Lodovina, sussurrò con una voce ch’era filo di bava di ragno, Lodovina, ‘nduma, vieni a vedere la fioca…

La moglie, ancora intabarrata sotto al trapuntino di chintz che aveva cucito a mano la buonanima di Luigina, sua suocera, osservò tra le fessure gonfie delle palpebre, le spalle un po’ cadenti del Francin, i capelli arruffati, ‘cmé ‘n mat, e pensò alla barbera che s’era trincato, la sera avanti, all’osteria. Finché il tempo lo permetteva, le notti ancora miti prima della stretta ostile dell’inverno, degli scaldini con le braci da sistemare sotto le lenzuola e il portone della cascina serrato, un sipario da calare sull’aia, il Francin si ritrovava in quel locale angusto e scuro, poco più d’uno stanzone coi tavolacci e una densa nebia di tabacco, a giocare a briscola, o a tresette, col Pinin e col Pietro. E lei era sicura che erano i bicerot d’ ros, giù e giù per la gola, a far vedere, adès, a quel salàm, ‘l bianc d’la fioca che cadeva sulle vigne.

Il Francin sembrava imbambolato davanti alla finestra spalancata, e il gallo aveva già smesso di cantare, così la donna si decise a levarsi, cercando coi piedi le pantufle ch’erano finite sotto il letto.

S’avvicinò al marito e sbirciò fuori.

T pias la fioca? – le chiese il Francin con un sorriso ebete stampato sulla faccia e con un largo gesto del braccio che comprendeva le colline, l’aia, il pollaio e le conigliere.

A t’ei ‘na testa mata, gli disse lei, mi vegh nen d’autut…

L’uomo fissò la moglie come se la guardasse per la prima volta. Le gote rosse, lo sguardo basso all’uscita della messa, i capelli neri come l’ala del corvo. E, di nuovo, riprese a guardare il ciel, quei fiocchi lenti che sembravano coriandoli gentili, mica gelati.

Com’era possibile che lei non la vedesse, quella fioca, così leggera, d’un biancore che quasi feriva lo sguardo innocente del mattino, con la sua bellezza atroce e inaspettata? Com’era che lei non sentisse ‘n s’la pel, pelle di pesca ch’era stata, morbida e setosa, l’inizio di quel freddo che pungeva mille aghi di ricordi? Quella fioca, era favo di ‘mel e fiel’, da scavare con l’indice per trovare il dolce e l’amaro di tutto ciò che era alle spalle, di tutto ciò che sarebbe, poi, venuto.

Un brivido gli passò lungo la schiena, pensando alle vigne, ai filari gonfi d’uva grignolino e freisa, ai cristalli di zucchero che diventavano, a poco a poco, ghiaccio. Il Francin immaginò che il vino di quell’anno sarebbe stato vino fermo, che quell’uva, miracolosamente, avrebbe serbato in sé la grazia delle cose inattese, i suoi passi di bambino sulle zolle smosse, le gote della Lodovina dei vent’anni, l’occhio velato dei conigli appena nati, i raggi dl’ sulèt sui noccioli, le colline pettinate dalle viti, la voce di sua madre che cantava.

E allora il Francin preseuna decisione. Si tirò su ben bene le brache, tirò la cintura stretta. Poi, prima di andare giù nell’aia, prese la Lodovina per la vita con le sue mani secche e dure: Tèh, j’è sucedji, ‘n miracol: ‘l fioca d’stember e ‘nlora mi t’ dagh ‘n basin, a l’è tanta ch’a tlu dava nen…T’lu meriti, a t’ei na brava dona… Mi vagh sù ‘n’tl’a vigna a veghi j’uvie ‘l miracol.

Dall’aia prese giù per il sentiero che aveva percorso fin da quando aveva imparato a camminare e intanto volteggiava un mano sopra la testa per creare un turbine sopra di sé, come a giocare con la fioca che continuava a scendere, fina e leggera. Arrivato più in basso, guardò intorno, presso i primi filari della vigna, detta d’la nona Jeta, e vide che la fioca non si fermava a terra, non aveva ancora fatto strato. Si meravigliò un po’. Là pòe nen fè mal!… Custa l’è n’don d’l ciel: l’istà lè stacia sucia…’n poch d’fioca la pòe nen fè mal…

Parlava da solo e girolava per la vigna toccando qua e là i lucenti, gentili acini del grignolino, li carezzava, erano il suo bene, come Lodovina. Raccolse poi su un acino un pizzico di quella fioca e se la portò alle labbra. Notò che non era gelida, come si aspettava. Si ripetè, la pòe nen fè mal, l’è manca slàia!

Si fermò ad un tratto nel secondo filare per allacciarsi una stringa ché, nella fretta, l’aveva legata male, la scarpa. Quando tirò su la testa, da ‘ncuciunà che era, vide due ciabatte vecchie davanti agli occhi e sopra un grembiule color brigna. Dentro, una figura magra magra, ‘nlupaja in uno scialletto nero, con le mani infilate nelle maniche, andò su con gli occhi, quasi spaventato, e vide il volto asciutto, austero della Jeta.

Granda Jeta, cu ca fevi qui, voi? Sevi nen al campusanto, voi? – gli venne di dire, ché lui, a sua nonna, le aveva sempre dato del voi.

Son ‘mnia a veghi la mè vigna! Custa l’era la me dote, ca j’òe portaji a to grand, e vanta c’la vena a custodila, a uardela, a conservela…ogni tant! – sillabò la nonna, in risposta.

Francin si tirò su piano piano, sempre tenendo la vista incantata dentro la filura sottile degli occhi della granda Jeta, da cui appena trasparivano le pupille chiare, poi fece una mossa di spalle quasi a scuotersi un peso, quindi timido sussurrò, smjia che i’ani a siu nen pasà per voi, granda, sevi semp la midema…

La vecchia figura scura assentì col capo tre volte, fece un giro di sguardi e di gesti di mano sui filari, poi sfumata replicò, d’cò la vigna l’è semp la midema: a tei tnila ben, Francin, t’sei stacc brav! A tei facc ‘l to dover! Però vanta che adès at veni après a mi…

E ‘n uanda c’anduma, granda?, le chiese, perplesso e imbarlondito, Francin.

Ábia nen a pau, o mè Francin, nduma mach da là, da l’atra banda! E lo prese decisa per il braccio, mentre lui barcollava come un bambino spaurito e procedettero accompagnandosi zoppicanti tra le zolle sconnesse del filare: Da l’atra banda…t’vegrai, l’tempesta nen, ‘l fa manca frech…

Quando la Lodovina si decise ad andare a cercare il Francin, ché chiamava chiamava da casa, dalla lobbia, e lui niente, manco una voce, si buttò giù per il sentiero con una certa ansia, quasi correva, l’andava sgagiaia c’mè ‘l vent.

Francin era seduto a terra sotto il noce, con la testa appoggiata al tronco, vicino al tròe, con la sigala smorta ‘ n boca, e gli occhi chiusi. Non c’era mica nessuna neve intorno, tutta terra asciutta, eppure suo marito c’aveva la fioca sui capelli, sulle spalle, sulle braje, sulle maniche della bloda, fin sulla sigala smorta.

Francin sembrava sorridesse.