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Quando ero piccolo
 
Quando ero piccolo piccolo non sentivo niente, non vedevo niente.
Poi, là dietro, dove mi avevano messo, hanno cominciato ad arrivare dei rumori.
Prima ho sentito una cosa che veniva da dentro, dopo c’era anche di fuori e credo fosse la voce, un lunghissimo urlo: il mio.
Poi, in quel buio, si avvicinava qualcuno: mi tiravano su e il mondo era brutto, triste, bagnato, duro e gelido, oscuro. Sembrava sempre scuro, infinita notte.
Là dietro non era altro che una camera nell’invernì dove stavo nella culla o in una specie di madia da pane: la bruciarono, anni dopo.
 Mi hanno dato allora un gatto che si chiamava Gigi, lui era meglio di tutti, lui mi insegnava a camminare a mangiare a bere a stare a fare le voci a dire a cantare: tutto.
Gigi mi faceva uscire fuori da quella stamberga tra fango, sterpi e mi guidava, mi diceva con la coda e con la schiena dove andare. Lui si voltava, spiava che arrivassi e riprendeva il sentiero, si metteva davanti alla pozza perché non ci andassi dentro, mi faceva vedere il mondo della frutta e delle erbe, mi custodiva e proteggeva: lui sì che era un amico.
Le galline no e nemmeno le oche che berciavano e tentavano di beccarmi in faccia. Gigi era grigio e bianco e non miagolava nemmeno; quando sono cresciuto un pochino lo afferravo tutto e me lo mettevo addosso su schiena e spalle e andavamo in giro così: eravamo tutt’uno. Lui era morbido e caldo, lui era la mia coperta bella.
Loro ci guardavano e ridevano.
Tra loro c’era la donna che mi aveva dato il latte da una mammella meravigliosa con i capezzoli scuri scuri. Lei era tanto triste.
Quella donna era mia madre, da lei ho capito che c’era la guerra in giro per il mondo: una volta mi ha preso in braccio, mi ha tirato su su e dalla cima di quella collina mi ha fatto vedere un fuoco che veniva da lontano e ha detto che là c’era Torino, là c’era il papà e piangeva, piangeva tanto.
Ho sentito allora che anch’io avevo una battaglia dentro.
Che non mi piaceva il posto dove mi avevano messo, che non mi andava tutto questo batibeuj che faceva molto male e induriva le facce della gente, poi si moriva anche e io non sapevo cos’era morire. Vedevo però piangere.
Una volta ho guardato in aria e c’erano gli aeroplani luccicanti e mi piacquero da matti.
Io avrei voluto essere un aeroplano lucido e leggero e volare là, in quel cielo dove c’è luce grande e nuvole leggere leggere e vento sottile che fa scvuissccc…..scvuisscc, non stare lì sotto in quel posto di palta e boschi e freddo a sentire dei colpi, rombi, tuoni. Erano cannonate, forse, bombardamenti. Anche ci tormentavano quelle cose che facevano trattattà, trattatà, trattatà: che era la mitraglia, dicevano.
Un’altra volta, quando non faceva più freddo e c’era meno fango, mentre giravo con Gigi in una vigna alla ricerca delle lucertole e a ammazzare formiche e ragni, ho visto il Parin che si infrattava basso verso un cabanun di paglia e pali al culmine della vigna con in mano un fagotto bianco. Ho sentito che parlavano piano. Io mi sono acquattato a pancia in giù sulla terra, Gigi anche e ascoltavamo impauriti cosa dicevano loro: non si capiva niente, però. Perché là dentro c’erano degli altri che parlavano diverso, più duro.
Ci ho ficcato un occhio sotto anche se Gigi mi tratteneva per la calza e il Parin mi ha visto e mi ha abbrancato. Però io li ho guardati bene: erano i prigionieri inglesi scappati a cui il Parin, che era bravo, portava da mangiare. Loro avevano un tubo di ferro nero in mano: era un mitra, adesso lo so che era uno Sten. Erano sporchi, i due, di terra e barbe lunghe e mezzi stracciati. Non mi hanno picchiato, hanno avuto paura loro, mi hanno guardato di brutto, però.
Il Parin mi ha detto: guai a te se dici qualcosa a qualcuno. Io non ho detto niente perché non dicevo mai niente a nessuno, praticamente non parlavo.
A un certo punto ho cominciato a capire chi era mio padre: lui arrivava in bicicletta con dei pacchi e se ne partiva con degli altri, di più ancora: era tutto un bagaglio legato su quella bici.
Lui era bello, lui mi prendeva in braccio e mi tirava su, io lo guardavo negli occhi e mi piaceva proprio, sapeva di buono, mi asciugava il naso col suo fazzoletto a quadri che aveva un profumo caldo di tabacco e dolci, cantava e suonava il mandolino: lui la guerra la prendeva bene, lui sorrideva, andava e veniva per le colline, per le stradacce, col fango e non: lui non aveva il mitra.
Quando arrivava il papà si faceva un pranzo ed erano tutti contenti: io di più.
Lui sapeva andare e commerciava sempre.
Lui sotto le bombe non moriva mai.
Poi siamo andati su di un’altra collina molto più bella con un casa più grossa con tre scalini, da altri nonni, però così ho perso Gigi che non voleva venire sulla bicicletta di mia mamma.
Ho trovato invece degli amici e dei cugini, ma questi erano più grandi, correvano via e mi lasciavano sempre indietro e mi dicevano che ero un carcatreppe: io urlavo come un matto, poi piangevo e me le prendevo da mia mamma, alla fine.
Noi giocavamo alla guerra.
C’era la guerra intorno e noi ne facevamo un’altra piccola con degli schioppi vecchi e delle canne; correvamo come dei razzi giù per i sentieri, ce le davamo e sparavamo per finta, avevamo la gola che bruciava a forza di gridare.
Poco più in là, sulla collina del conte invece un giorno arrivarono dei camion verdi, quelli dei tedeschi con sopra le mitragliere da venti, che avevano due o quattro canne.
 Mia mamma mi prese e mi portò in cantina, tra botti e damigiane, che a momenti mi strangolava nell’abbracciarmi, per il terrore che aveva lei.
Invece mio cugino Sandro era grande e spavaldo; andò sotto i camion a raccogliere i bossoli appena sparati dai tedeschi: erano grossi, lucidi e belli come l’oro e suonavano tra di loro come campanelle. Si sentivano le mitragliere che facevano tatum tatum tatum, sparavano contro il paese di fronte dove c’era la repubblica partigiana e avevano fatto la rivoluzione, anche il parroco aveva la tessera comunista. Quando hanno smesso di sparare il nonno è andato fuori, ha preso Sandro per le orecchie e glie l’ha ficcate che se le ricorda ancora adesso.
Poi passavano i repubblichini da far paura, con le barbe, le maglie nere, i mitra con le canne bucherellate e c’era di nuovo fango e ghiaccio, un freddo boia. Avevano anche dei cani bastardi cattivi, come la morte disperata che cantavano loro, e una autoblinda con i cingoli che si impiantò su per la salita. Fu uno spettacolo e quell’uomo di Buriùs disse: Che penìcula! Cioè sembrava di essere al cine. Poi un nero si arrabbiò, sparò in aria e siamo fuggiti tutti e io me le sono prese di nuovo, a casa.
Io scappavo sempre giù nella valle: andavo a fare le mie solitarie guerre alle formiche e ai ragni cattivi che mi mordevano le gambe e il culo mentre stavo seduto per terra a fare montrucchi o dighe o piste. Io, arrabbiatissimo, ne sterminavo dei milioni, ci pisciavo anche sopra e ridevo. Loro erano i nemici dell’umanità. Io ci godevo.
Poi per fortuna anche il ghiaccio ha cominciato a fondersi e c’era un acquitrino da morire. Mio papà, quando c’era, con la testa sotto uno straccio nero sentiva radio Londra e la mamma gli dava delle botte sulla schiena perché spegnesse che se qualcuno spiava lo fucilavano, lui se ne fregava e rideva. E ridevo, anch’io ridevo perché il papà diceva che con i fascisti era finita e sarebbero arrivati gli alleati con la pace e da mangiare: la legge e l’ordine, finalmente.
Una volta ho visto i primi partigiani. Erano dei giovanottoni con delle armi tutte speciali che a volte sfilavano, avevano dei nomi strambi come Gim, Toro, Bill, il Pirata, Tarzan e poi c’era un capo straordinario che si chiamava Tek Tek che aveva anche la Balilla con la mitraglia sopra. Passavano anche veloci in moto, avevano dei fazzoletti colorati al collo, i capelli in aria, delle facce rosse, i vestiti terrosi: a me facevano anche spavento perché andavano nervosi, sembravano anche sprezzanti: forse avevano paura anche loro.
Non c’era nessuno che non avesse paura, l’ho capito dopo.
Con il bel tempo scappavo ancora di più e sparivo dalla circolazione perché io non andavo né all’asilo né a scuola; quando tornavo, lo sapevo già, mi sgridavano e poi me le prendevo.
Io mi stufavo a stare solo nel cortile.
Una volta sono scappato fino ad un paese vicino, sulla cresta della collina seguente: mi piaceva da matti andarci, perché aveva un gran castello rosso come nelle storie di mia nonna, aveva i merli, la torre e finestre grosse; dentro ci erano andati i partigiani e avevano messo un comando.
Io guardavo in su stupito e sentivo le voci dall’interno che dicevano, comandavano, urlavano.
Poi, mentre tutto contento stuzzicavo un gatto, sotto la torre arrivano ansimanti su per il gran prato che porta al castello degli uomini con fucili urlando: Arriva la flak! arriva la flak! Arrivano i nazi da Alessandria con le mitragliere! Chiamate tutti… adunata…allarme! Preparare la difesa!
E si sono buttati nel castello. Io mi sono spaventato e il gatto è scappato via velocissimo. Sono salito su di una scaletta che andava in un fienile piccolo e lì mi sono coperto di paglia fino alla testa ma col naso e gli occhi fuori per guardare ben bene.
E ho visto, ho sentito arrivare i soliti camion verdi là sotto in fondo alla valle che non conoscevo: facevano un sacco di manovre e si appostavano. Dal castello hanno cominciato a sparare i partigiani con i moschetti ed i mitra, facevano un tatatatatata indiavolato ma non ammazzavano nessuno perché i tedeschi erano lontani.
Io li sentivo bestemmiare infuriati e mi spaventavo sempre di più.
Poi ho sentito incominciare quel terribile, indiavolato frastuono del tatatum tatatum tatatum delle mitragliere e per poco urlavo anch’io.
Si vedevano i colpi arrivare su contro il castello, i suoi merli e fare draaannnn; io vedevo scheggiarsi i muri e i mattoni spezzarsi come il mio stomaco. Era tutto un colpo, un botto, un urlo. Poi a un partigiano che si era affacciato gli arrivò un colpo in testa e gliela portò via e quella povera testa volò là dietro, sull’erba. 
Io non avevo mai visto nessuno senza testa.
Allora non ho guardato più. Avevo una paura da morire e piangevo.
Ma, quando c’è stato un momento di calma sono scivolato, come una biscia, giù dal buco del fieno che andava nella stalla: non c’era nessuno, per fortuna e sono scappato giù, via.
Non ci ho messo niente ad arrivare al mio paese. Niente.
Mia mamma aveva le mani in testa davanti alla casa, piangeva: io ero mezzo morto per la corsa, mi misi le mani in testa anch’io e le urlai: "Non darmi …non darmi… non darmi!"
Lei abbassò le mani, mi allargò le braccia, mi tirò su e cominciò a singhiozzare.
Mi strinse, forte forte forte e io ero contento allora. Mi portò nel suo letto e mi scaldò, ché ero gelato e non me lo dimentico più.
Poi è finita la guerra, il mese dopo, ed abbiamo fatto un pranzo che tutti mangiavano e bevevano e ridevano e cantavano e ballavano e saltavano e gridavano e non si finiva mai di dire: E’ finita!
Mi addormentavo sotto i tavoli ed ero felice, io, ché finalmente tutti ridevano, meno quel povero partigiano che gli portarono via la testa. Ho saputo poi che aveva un bel nome: si chiamava Falco, poveretto.
Ed un’altra cosa, tanto tempo dopo ho letto: in quel giorno terribile di battaglia al castello, mentre guardavo da sotto la paglia, lì distante cento metri da me tra i combattenti c’era Beppe Fenoglio, allora non sapevo chi fosse. Mi piace immaginare di averlo visto col mitra in mano e quella sua figura in ombra mi scalda ancora il cuore, come fosse stato mio fratello maggiore.


(la foto qui sopra – cliccaci su per ingrandirla- l’ho scattata l’anno scorso al Salone del Libro. Tra parentesi, dovrei esserci nuovamente a spasso intorno al 7 maggio prossimo. Per chi passa da quelle parti, ci salutiamo….

Sorteggiate le prossime due destinazioni del Quaderno:
1) Casale Monferrato
2) Torino
Chi lo riceverà?
 

Prova, prova, prova.

Nel suo peregrinare senza calcoli, il quadernetto è arrivato a CALCO (Lecco)

Altri avvistamenti….

Finzioni & Ferretti
Qualche giorno fa sono ritornato al Museo Egizio di Torino per vedere la nuova sala della "Statuaria" riallestita di recente in occasioni delle olimpiadi invernali.
Sono rimasto stupito e stupefatto per l’allestimento di questo ambiente: troneggiavano e si stagliavano nette le grandi statue dei faraoni e della dea Sekhmet in due grandi saloni oscuri. Dalla volta a grigliato nero piovevano luci adatte che si indirizzavano bene sulle sculture, alle pareti grandi lastre di specchi neri fino alla volta che permettono di veder anche il retro dei lavori con i geroglifici, i graffiti, le cartouches. L’effetto specchio produce una sorta di prospettiva non disturbante che amplifica la sala e luminosità si diffonde. Grande suggestione aiutata da una musica leggera che accompagna il visitatore.
Ho notato che le grandi lastre di specchio erano a tratti alternate da altri rivestimenti che mi sembravano lastre di granito o porfido rossastro, scuro. Poiché sono del mestiere, avendo progettato alcuni allestimenti di grandi mostre per enti pubblici, sono andato a toccare con mano il materiale:
il medesimo non era pietra o marmo, bensì panelli di truciolare tinti in bordò scuro, verniciati poi o cerati benissimo da "simulare" o "fingere" la pietra.
Davvero un gran bel lavoro.
Ho scoperto dopo che il progettista di tutto il magnifico allestimento è Dante Ferretti, scenografo, già con Fellini, Pasolini e premio Oscar per il film "The Aviator" di Scorsese., con cui collabora da anni.
Qui aggiungo alcune sue brevi dichiarazioni tratte da Torinosettegiorni, supplemento del La Stampa, in occasione di una mostra di opere di Dante Ferretti che si inaugura al Museo del Cinema di Torino l’11 aprile c.a.
" Ho conosciuto Martin Scorsese tanto tempo fa, sul set di Fellini, "La città delle donne". Lui era venuto a trovarlo e il maestro ci ha presentati. Poi Scorsese mi chiamò per fare "L’ultima tentazione di Cristo" ma io ero occupato nella lavorazione di un altro film. Mi richiamò ed anche il quel caso avevo già preso un impegno. La terza volta era per "L’età dell’innocenza", ho disdetto ogni altro lavoro e gli ho detto "vengo di corsa". "The Aviator" è un film su Howard Hughes, un sognatore e un megalomane, e quindi ho disegnato scenografie megalomani. Per la sequenza dell’incidente ho ricostruito un quartiere di Beverly Hills e poi gli ho dato fuoco. Il problema più grosso è stato ottenere il permesso da tutti gli abitanti della zona! Il Chinese Theatre, invece, l’ho montato a Montreal. E l’ho fatto 30 centimetri più largo dell’originale. Così, per sfizio.

Voglio che lo spettatore creda completamente a quello che vede. Deve pensare: eccomi nella New York dell’800, o in un villaggio tibetano, o nell’antica Roma. Per questo uso materiali veri: vetro, legno, mattoni. Odio la plastica e il computer. Prima di mettermi a disegnare, raccolgo un’accurata documentazione storica sui luoghi e i periodi che devo ricostruire. Spesso parto da un dettaglio che mi ha colpito, e tutto il resto viene di conseguenza".
Con Fellini il legame era quasi ossessivo, con Pasolini c’era una complessità diversa. Dal primo ho imparato a dire le bugie. Ogni mattina, quando lavoravamo insieme a Cinecittà, Federico mi chiedeva che cosa avevo sognato la notte prima, io rispondevo sempre la verità, niente, ma, dopo un po’ di volte, ho capito che, per non deluderlo, avrei dovuto inventare qualcosa. D’altra parte sua moglie Giulietta Masina diceva sempre "Federico è talmente bugiardo che quando dice la verità diventa rosso". Per quasi quindici anni, ho cercato di dare corpo a quello che lui voleva vedere. Uno sforzo nel nome della fantasia: "Guarda il mare" mi diceva Federico quando andavamo a mangiare sulle spiagge vicino Roma, "ecco, dimenticalo, perché il mare che voglio io dev’essere finto".
Ho segnalato e scritto tutto ciò perché dalla osservazione di una finzione o simulazione di un materiale ho pensato che gli uomini hanno un continuo bisogno di "finzioni".
Fingere e finzioni derivano da una radice indoeuropea che significa "plasmare".
Pare che il genere umano in continuazione necessiti di ambienti, racconti, storie, immagini che fingano, che riraccontino un’altra realtà, che poi nel momento stesso che viene racconta diventa pure essa realtà a pieno titolo.
 

c’è una scrittura maschile blogghiga che

l’essere, dico io, a farlo vivere fu una voce
la sua esistenza affidata alla pura oralità
in principio: demone funerario, nato dentro un ventre
come un figlio nuovo di fronte alla morte, amico, e tu
lo cacci fuori, adesso, con fiati senza musica, ma guardami
bene mentre ti parlo dallo specchio, ti sembra tardi
ma non è vero, questa è la notte delle resurrezioni,
l’essere è fame che segue subito la nascita.

Antonio Porta – Invasioni – 1984

 

– Nelle profondità della mezzerìa dello scill’e cariddi, dove poggiava sommerso nella

lava fredda e nera del suo sonno, un gigantesco, misterioso, inimmaginabile animale, cominciava

la poderosa operazione del suo risveglio e riassommamento. La sua mente si smuoveva

dal sonno di roccia, avvolta in nebbie fitte, in nuvolosità nere fumose, il suo corpo immenso

andava spostandosi nelle tenebre sterminate, impenetrabili dell’abisso, entro cui combaciava

con le grasse scannellature e i grumi di sangue nero, nero come di pece, per tutta la sua terrificante,

alta e lunga grossezza, come in un fodero di velluto nero, l’enorme mole affusolata

andava spostandosi con possente, inesorabile lentezza: il fenomeno di natura fatalmente

aveva inizio, fatalmente si muoveva al suo fine, dagli sprofondi abissali veniva un rimbombo

spento come il rotolìo di un tuono per quelle fosse e montagne sottomarine, e il mare alla

superficie di scuoteva tutto. L’animalone brancolava ancora cieco e sonnoso, oscuro e inavvertito

come tutti i cataclismi nelle loro sotterranee origini, quando non se ne ha ancora segno

e sono già sotto i nostri piedi. La sua immensa mole affusolata saliva, preceduta dall’alta

pinna dorsale ad ascia, come un sommergibile dal suo periscopio, e salendo, dalle bocchette

dello sfiatatoio sprigionava un sibilo come di fuoco che va per acqua, di lava di vulcano che erutta

dagli abissi e raffreddandosi, forma un isolotto in superficie.

Era l’Orca, quella che dà morte,

mentre lei passa per immortale: lei, la Morte marina, sarebbe a dire la Morte, in una parola.-

D’ARRIGO