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Fu anche l’ultima frase dell’anziana signora Ortolani Ersilia, fedelissima e avveduta cliente, a buttarlo giù: “Lo sa, lei, signor Iperyque..? Lei sembra uscito da un romanzo di Garcia Marquez… Non glie l’avevo mai detto, ma oggi, non so, scusi, ha una faccia così stranita e perplessa…”
E lui, Garcia Marquez, non l’aveva retto mai. Si era sforzato, sì, come di dovere, perché il rivenditore deve garantire ed elogiare la merce che propone, però ora era più propenso al verbo “propina” piuttosto che “propone”. Altro che realismo magico: proprio in quel momento avrebbe avuto bisogno di un solido realismo di mattoni sesquipedali e massi megalitici, colonne d’acciaio, pilastri di bronzo.
Una stretta allo stomaco, lenta e fonda, pareva lo stesse consumando, si propagava sulla faccia, glie la rigava, gli strizzava gli occhi, rendeva le sopracciglia simili a due barre scure inclinate, cadute verso il basso: come le vendite de-cadute, precipitate, la recessione stava facendo sentire i suoi morsi, da parecchi mesi; i libri da vendere, quasi unica sua fonte di reddito parevano la cosa meno solida esistente sotto i suoi piedi.
Aveva pure dovuto “sganciare” i suoi due venditori, definiti, fino a pochi mesi prima, pomposamente, agenti, i disperati Dimitri e Romualdo, un rumeno e un equadoregno, che sarebbero andati a sbattere testa e cassa in qualche parrocchia, mah…
Già a mala pena sopravvivevano, avevano fatto certe facce.
“Venditore di opere di cultura” o meglio carta stampata, porta a porta, pressoché in nero, con collaboratori esterni, suonava ora malissimo. Anche il suo cognome inconsueto gli risultava ributtante, già non l’aveva mai digerito perché era il nome di nessuna famiglia, forse roba affibiatagli da suora missionaria con nostalgie erboristiche latino/americane.
Era nato presumibilmente a Collegno (TO) da m.i. e n.n. e si teneva addosso quell’Iperyque del cazzo come una cappa di pesanti girasoli appassiti, nati magari in Perù e fetenti di rancido.
E gli erano calate le vendite vertiginosamente, e i suoi fondi erano andati giù di brutto, ché per cretina, irrazionale simpatia aveva acquistato quelli argentini. Virginia, la seconda moglie lo perseguitava, per via legale e con merdose telefonate, reclamando gli alimenti evasi furbescamente.
Ecco, ci voleva forse un’angelo, un angelo colombiano che precipitasse giù, lì vicino a lui, con una sporta di dollari in oro, o una cicogna recante appiccato al lungo becco un fagottone di euro. Per quello che il realismo magico gli stava sulle palle, perché non cascano mai celestiali creature, ti cadono i testicoli magari, ti si seccano gli occhi, non hai neanche più voglia di piangere.
Invece di pioggia di angeli, c’erano offerte a diluvio di piccole case editrici che gli proponevano cataloghi, interi magazzini a prezzi ridicoli, da svendere a domicilio, ma il mercato suo era quasi crollato, miseramente.
Iperyque si guardava le mani come non fossero più sue.
Avrebbe voluto che non appartenessero più a lui, avrebbe desiderato, che si muovessero da sole a fare, a cercare, a forgiare, a inventare, a scavare un tesoro, a scovare la tomba d’un faraone, d’un lucumone, magari d’un lumacone tutto aureo, una gigantesca chiocciola che rilasciava nel suo sterile cortile bave preziose di smeraldi, topazi, zaffiri: roba solida, molto in rialzo, beni rifugio, già.
Le mani istintivamente si muovevano, invece, per cacciare le ultime due mosche meschine e ottobrine che lo tormentavano in cucina, si posavano sulla forchetta unta e poi sul suo naso, sul mento, sul collo, sulle sopracciglia boscose per cercarvi forse funghi o misteriosi miceli.
La mani del sig. Iperyque febbrilmente si agitavano e avrebbero voluto, poi, proprio loro, simmetricamente avanzare valicando spazi temporali per afferrare il collo, numerose strozze, gole, cannarozzi di personaggi ben noti quali: presidenti di stati, direttori di banche, affaristi indiavolati e privi di scrupoli, quei maledetti yuppies, quei brokers che con i loro edge funds, i cosi, detti derivati, i mutui subprime, lo mandavano in rovina.
Le sue mani tastavano carni floride, guance ben rasate, baveri di ricche giacche, colletti di finissimo cotone americano, cravatte di gran firma, orologi di Bulgari & Cartier, lisciavano figure immobili, quasi statuarie, che parevano monumenti di condottieri romani, poi si chiudevano a tenaglia e strappavano, strozzavano, stracciavano, martellavano e minuzzavano in mille frammenti i gloriosi cortigiani e servi del capitale mondiale.
Quindi scendevano lente le sue mani, stanche di tanta fatica e strazio, e ritornavano alle sue guance. Avevano ritrovato mestamente il loro padrone e agente, e gli davano uno schiaffetto, così, d’incoraggiamento.

Iperyque, a tal punto, si fermò, guardò più in là, oltre il vetro della cucina e vide scendere pioggia tanta, e vento che l’agitava, con essa un turbine di foglie gialle lucenti spiccate da un pioppo, dorate come un fiore d’iperico: iperico come il suo detestato cognome, e la sua rabbia gradualmente si mutò in tristezza, forte sì, ma non mordente come la furia precedente.
In un barlume di strana coscienza le intravide, e immaginò, come l’anime o presenze dei genitori suoi sconosciuti, che scendevano come frange a vilupparlo, a nasconderlo, a medicarlo, forse a proteggerlo.

Il presente racconto lo si può trovare pure sul blog di Brabara Garlaschelli che gentilmente volle pubblicarlo: http://barbara-garlaschelli.splinder.com/


che dopo el Sior Mario me dise che le immagini così e cosà  e che el quadro casca in testa e che el ciodo non tien e, insoma, e via discorrendo, e anca che mi me domando sempre dove l’è andà e chi che el xe qualchedùn, e Giobanni quel mato e anca el can de Venessia e ‘vanti di questo passo, ma… bela compania… quel ciclista lì che el se rampega sui muri xeo el sior tenente?
però gha da èsere una bela fadiga rampegar, lì tuto storto sora i pedali.
o no?
magari el xe el Sior Mario in incognito.
Sior Mario l’è lu???? che mi no lo fasevo tanto sportivo !!! Ma non se sa mai, sti briganti de pitori.
Vegno, vegnooo!!! eh madonnina mia che pressa.
Orcabè.
beh, alòra vado che i me ciama
. Eh. Arivoooo

la teresina a piè

Caro il mio indifettibile, ma sdegnoso cugino

Te vedi come sono ridotto?
Non mi son fatto più vedere perché c’avevo da fare tanto, e te? Anche, o no?
Potresti almeno telefonarmi, coglioncello!
È che la Gina, la settimana scorsa mi fa: Vedi un po’ che meraviglia di scarpiera che c’ha la Wally, (quella troia della sorella di Carlo), sotto il davanzale della finestra della stanza s’è fatta fare da ‘n bravissimo falegname (te lo do io il falegname: c’avrà avuto ‘na mazza tanta!), un armadietto capacissimo che ci staranno settemila scarpette! Tu che sei tanto bravo…che c’hai le mani d’oro, potresti farne uno simile, anche tu, magari meglio… così utilizziamo in modo più razionale lo spazio, così butto via quella brutta scarpiera dell’Ikea che s’è già scassata due volte… Adesso che c’hai tanto tempo potresti farla tu ….no!?
Ecco, robe da chiodi! E da viti autofilettanti e da trapano avvitatore e da morse e zeppe e da vinavil, etcetera. Cazzo.
Cioè, allora, io che sono diventato come un vergognoso succubo, prima ho preso le misure e sono sceso in cantina a segare, tagliare, fare e via, borbottando e scalciando come un vecchio mulo del I° Artiglieria da montagna.
Era per venire al dunque:
Io là sotto accumulo cose, lo sai: legnami, assi, compensati, ferri, la maggior parte roba che recupero per strada; trovo ‘sta rumenta vicino ai cassonetti e non mi vergogno a pigliarla. L’altro giorno ho tirato su due ante d’armadio in tamburato, bello e sano, in Rua de Tordesillas; mi affaticavo a caricarli sul tetto della macchina e i somali che stazionano lì tutto il giorno a cazzeggiare, a sfumazzare, a dire le loro palle mi guardavano e ridevano. Io ancora un po’ gli tiravo un martello. Le mogli nelle botteghe a cucire, a lavorare, a cucinare nel kebab somalo, a tirare su i figli e loro a fare la beata fava, cristo.
Vabbè, non sono razzista, però tre mesi fa anche i nigeriani di via Balfour ridevano mentre caricavo e godevo per aver trovato tre ante impiallicciate di mogano.
Ma è mica di questo che volevo dirti: è che mio cognato diceva che sembro un barbone, cazzo, (e non me ne frega niente) ma dice che se tutti fossero come me la società dei consumi morirebbe, (come sta stranfiando, infatti), che recuperando non creo, non do lavoro, non genero attività, sono un verme improduttivo.
Ecco: verme! Mi ha detto: sei diventato un verme parassita del capitalismo reale, una specie di tenia, capisci? Il verme solitario, merda! Ecco, proprio merda, quello che vive nella cacca!
Io mi sono alzato, e gli ho versato il bicchiere di vino in testa, poi sono uscito, mi mancava il respiro, stavo male davvero, orca.
E pensavo, mi arrovellavo e mi dicevo: ma cazzo, vedi un po’, uno cerca di risparmiare, che con ‘sta pensione del cazzo mica è facile tirare avanti e quel cagone tira fuori il verme del capitalismo reale!
E pensare, ti dico, che ogni giorno che passa vedo più gente che cerca roba nei bidoni, nei cassonetti, anche cibo: rovistano, smistano, separano con le mani nude, arraffano mettono in altri sacchetti e scappano. E mi fanno tanta pena.
E lo sai, tu: noi veniamo da ‘na civiltà contadina, mica si buttava niente, si utilizzava tutto, non c’erano mica i bidoni dell’immondizia, mica mi vergogno, no, di riutillizare gli avanzi del capitalismo reale!
Fanno enormi imballi, un sacco di plastiche schifose da smaltire, polistirolo, poliuretano, roba vinilica, PVC, bottiglie, taniche di plastica, cartoni, scatoloni e ogni sorta di porcate utili che però svuotano la sfera sottostante e soffocano, affogano, avvelenano il mondo.
Dicono o dicevano così: comprate, lavorate e comprate, fatevi largo, guadagnate e comprate, scannatevi e acquistate, tanto il mercato vince sempre, vi diamo i soldi, un prestito a buon interesse e comprate, dai, così si tiene in piedi il capitalismo reale, si produce, si fa, si progetta, si fanno nuovi modelli, nuove idee, si tiene in moto questa bella società di gente attiva, produttiva, dalla mente florida, inventori, creativi, banchieri, stilisti, gente allegra, gente brillante e sorridente coll’avvenire raggiante, su un’auto veloce e splendente in un’aurora d’arancio sconvolgente….
Altro che il sol dell’avvenire, cazzo, con gli operai in tuta blu e in contadini con le braghe di fustagno, quelli di Pelizza, te li ricordi, no?!

Tanto per dire: mi s’è scassata, porcaputtana, la mia Canon Powershot, comprata 4 anni fa, per 400 euro, è quasi morta, si vede tutto storto.
Sono andato dal coso che me l’ha venduta e mi ha detto che è da buttar via.
Ne vuoi un’altra, del tipo, circa 300 €: mica poco.
Io li butterei via loro! Oggi mi sono messo lì coi microcacciaviti e la sto smontando, voglio vedere cosa c’è dentro, non mi rassegno, porcaeva.
Magari riesco ad aggiustarla, magari è solo una cazzata, un’ossidazione.
Fatti vivo, coglioncello letterato
Tuo Ernesto

   

     Vengo con questa mia per annunciare, che è uscito il numero 79 della Rivista TRATTI, Autunno 2008, edita dalla sempre ammirabile casa editrice MOBYDICK.
Lo scrivo, con piacere, perché, come si legge qui sotto, sono pubblicati in queste pagine molti racconti brevi di blogghers che hanno visitato questo nostro luogo, vicini o amici di noi cartografi, e che provengono dalla raccolta di quelli spediti alla brava Barbara Garlaschelli per la serie “Cortosipuòfare”.
Aggiungasi ch’è pure pubblicato un mio racconto: “Il cane di Gino Vasapolli” che avevo inviato a Mobydick anni fa e di cui manco più mi ricordavo.                         
(Sulla rivista TRATTI erano comparsi, non so più quanto tempo fa, in due riprese dei miei disegni a china ispirati a letture di Stevenson e di Melville.)

Barbara Garlaschelli
Daniela Losini

Barbara Gozzi, Manca Paladino, Matteo Ongari,
Lino Di Gianni, Renata Maccheroni, Antonio Varriale,
Elena Vesnaver, Annalisa Ferrari, Stefano Bernazzani,
Petarda, E.l.e.n.a., Ladypazz, Francesco Laviano,
Daniele Muriano, Viola Carrodano, Luca Menotti,
Vincenzo Comito, Lorenzo Pieff, Zena Roncada,
Raffaele Serafini, Tracina, Giorgio Sannino,
Manca Petrolati, Misha, Patrizia Spinetta,
Alessio Sala, Bastax, Massimo De Nardo,
Notimetolose, Antonella Anzalone,
Annamaria Trevale.
Mario Bianco
Claudio Malvicini
Daniela Raimondi
Aldo Gianolio
Richard Garnett
Alessandra Calvani
Riccarda Novello
Luigi Casanova
Antonio Veca

Per di più, sono assai contento perché ho saputo dalla nostra socia Giovanna Didanka che venerdì 7 novembre 2008, alle ore 18, alla Libreria Mel di Padova viene presentato il volume "L’inatteso", dell’amato ed indimenticabile socio Gino Tasca, cf 10152520, sempre per le Edizioni Moby Dick.
E’ una raccolta dei racconti brevi del  nostro Gino che se ne andò, purtroppo, nell’agosto 2005. 

Mario Bianco

cane a venezia 2 copia

E bela compania.

Ma l’è questo el can de Venessia?

Che belin, là che el varda cosa non se sa.

Scuseme tanto se interompo i vostri discorsi de mostri che, per la verità,  i me fa un po’ de paura, ma pasciensa se a voialtri i ve piase la va ben lostesso

Ma, i me gha dito che i sercava un can da qualche parte, non so ben.

Non me ricordo più se el xe el can de Venessia o de Trieste.

Lu lo sa sior Mario? e voialtri che magari per strada, non so.

Mi el me pare lu, el can, digo, ma el me pare de Venessia.

La teresina in barcheta

    

     Ho finito oggi di leggere “La milleduesima notte” (Die geschichte der 1002.nacht) del mai abbastanza lodato Joseph Roth, l’ultima sua trafiggente opera, del 1939, pubblicata postuma, che mi ha decisamente intristito.
Il brano finale, davvero degno testamento letterario, mi ha fatto da un lato correre ai famigliari e singolari personaggi della nostra amica cartografa opi (ovvero Azu), dall’altro al connotato frequente di tanta narrativa nera che va di moda:

Il vecchio Tino Percoli, che continuava a fornire figure di cera al Bioscopio Mondiale e conosceva la Storia di Mizzi Schinagl, soleva dire talora:
“ Io potrei magari fabbricare figure che abbiano cuore, coscienza, passioni, sentimenti, moralità. Ma nessuno ai mondo ne vuol sapere. Quello che vogliono a questo mondo sono soltanto le curiosità, i mostri. Ecco quello che vogliono, i mostri! ”.

Oggi, venerdì, 10 ottobre 2008,

la nostra amica e cartografa Pispa

ha scritto un pezzo bellissimo dedicato a sua madre,

ve lo raccomando davvero

 

                                        L’IO DIVISO di Laing – traduttore David Mezzacapa, ironia o destino?

Caro Herr Nesto,
non era che ieri, quando ci siamo incontrati sul solito, più che quotidiano, marciapiede della sottostante Via Olivares e tu non eri più lo stesso.
La settimana scorsa andavimi blaterando di rande e di scotte, di plance, di ponti di navi, tolde, fasciami, vascelli, traghetti che solcano invincibili i mari dell’immaginazione; gesticolavi, mi significavi di tuoi sogni singolari in questo aere di autunno già brumoso di tossiche fumigazioni, mi alludevi con quel gesto allargato di spianate sterminate, del larghissimo ponte di una immensa simil/portaerei che tu percorrevi nel sole mattutino e nel vento.
Io ho detto: Già.
Carlo il fotografo ha soggiunto: Eccheccazzo! Manco ‘na bella figa…e che sogno è!?
Tu gli hai preso una mano e gli hai sputato sul palmo.
E te ne sei fuggito.
Non fu un nobile gesto, mio caro, e Carlo, benché rozzo e un poco coglione, si mise quasi a piangere.

Ieri ti ho veduto curvo come ti avesse preso ‘na scossa elettrica da saetta o folgore predestinata all’irriducibile sognatore, ed eri pallido come i pannelli di gesso nell’androncino, qui, di entrata.
Come al solito hai gesticolato, fatto drammatici atti verticali, la mano destra tirava in giù come impugnasse ‘na mannaia o un katana, oppure erano dita a mazzetto agitate verso il basso, indicanti una caduta drammatica.
Hai alluso credo a crolli, precipizi ruinosi cioè segnali opposti ai precedenti.
Dall’orizzontale al verticale, dal sereno/piano alla saetta precipite.
Lo so, l’hai detto:
Il crollo delle borse è il sintomo del mio culo a terra.
Il papa è il beccamorto del mondo occidentale, offizia diabolicamente i riti funebri dell’Illuminismo e della grande illuminazione del 1789
E di nuovo sei sparito.

A volte mi sfuggi davvero, credo di conoscerti, di sopportarti come amico da più di anni cinquanta, ma credo che davvero, oggi come allora, come quando scrivevi su e colle pietre, ti faccia bene un ritiro.
È la campana del tempo che suona di nuovo in te.

Tuo Armando