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(ad un angolo in Borgo San Salvario)
‘n s’l cantùn di terùn

Guarda lì che gènt! Na volta a j’eru i terùn, ades tuti somali! – dice Carlo il fotografo
Te sei sempre ‘nvece o solito strùnz ca sarà millann ca ce l’hai co’ i terùn – dice Sperandio
Ecchecazzo! Era per dire… Tanto per dire – risponde Carlo
‘sti somali no’ tengono niente a che ffà – fa Ciccio Cataponi
Sempre lì a gratèse – commenta Carlo
Le donne però a casa o in negozio a lavorare e faticare e lavorare – aggiunge Carmela moglie Sperandio
Eccheccazzo! Così è la vita! Loro sanno vivere, sì! – ridice Carlo
Infatti, a tte, tre mogli t’hanno mollato, nèèèèhhh! – ribatte Carmela
Ohhccristo, ma guarda sììì! Andiamo sul personale, adesso?!! – s’incazza Carlo
‘sti somali sempre a fare un cazzo – ricommenta Ciccio Cataponi
L’avimmo capito, giààà! Te Ciccio sì duro come de cimento, marònnamia – fa Sperandio
A Ciccio l’hanno costruito d’pera d’Luserna, anche se l’è terùn…ahhhaahhhahhh!- ridacchia Carlo
Pietra o no, sarebbe megghio ca andate a faticare, aiutare in casa! Capito: aiutare! – sentenzia Carmela
Hìììì, oggi aggio lavato pure i piatt! Ho dato l’isempio, capììì, Carlo, mica sono somalo! – sbotta Sperandio
Mi l’hai pì gnùne fùmne e stagu bin parèi – fa Carlo
Berluscù tiene ciento fimmine, tiene le veline col culo de fuora, lui – sbatacchiando la testa Ciccio
Berluscù tiene furbizia assai… è maliziuso assai – fa Billy o zamarro testè giunto
Turna cun Berluscùn! Che barba! – triste dice Carlo
Io a Berluscù lo farei sòmmalo di botte – parla Nino il falegname per la prima volta
Io a Berluscù ci darei nu premio fedeltà…. – fa Billy o zamarro
Premio fedeltà de che?– fa Sperandio
Fedeltà alla faccia sua e a o vestito bblè – termina Billy o zamarro
Minchia! – conclude Carlo

cantata e suonata dagli Ustmamò

A Modena, liberata dai suoi partigiani
domenica 22 aprile 1945, la sera del 23 aprile
fu data la notizia che era stato trovato
un partigiano ucciso, sconosciuto a tutti,
il quale aveva in tasca soltanto un pezzo di pane.
La sua fotografia fu esposta per alcuni
giorni sotto il portico del Collegio,
della località più centrale e più
frequentata della città.
Poi non se ne seppe più nulla.
Questa poesia di un anonimo, appunto
ispirata a questo episodio, comparve in
quei giorni accanto alla fotografia dello
sconosciuto.

Dalle contese montagne,
alla ribelle pianura
con in tasca un pezzo di pane
a tracolla un vecchio moschetto
a liberarci tu sei venuto,
Partigiano Sconosciuto.

Quanto, ignoto protettore lontano,
ti avevamo invocato
e nei giorni del terrore
sotto il giogo maledetto
solo appoggio era il tuo aiuto,
Partigiano Sconosciuto.

Ma l’odio in contro ti mosse,
il dì della lotta aperta
e camicia e bandiera
rosse ti diventarono sul petto
e il tuo cuore si serbò muto,
Partigiano Sconosciuto.

In quel terribile schianto,
che barcollavi e morivi :
o nostro fratello santo, santo
figlio nostro benedetto,
il tuo volto l’abbiam saputo,
Partigiano sconosciuto.

Qui trovate testo e la musica di Sergio Liberovici:

http://www.ildeposito.org/archivio/canti/canto.php?id=756

E’ uscito, o sta per uscire, per le BLU edizioni, un libro inconsueto, decisamente favoloso, un libro "inutile"  e godibilissimo, un insieme di ricette, di poesie, di note autobiografiche, di divagazioni lontane e vicinissime, tutto ciò messo insieme  dal mio vecchio e geniale amico Egi Volterrani, cuoco ed architetto, pittore, scultore, esimio africanista, socio fondatore e direttore editoriale de la casa editrice LE NUOVE MUSE. Appongo qui sotto la bella prefazione di Ernesto Ferrero.

   Nella sua vita Egi Volterrani ha fatto tolte cose e tutte egregiamente: l’architetto, l’urbanista (capace di consegnare a Paesi africani interi villaggi chiavi in mano), il pittore, lo scultore, il grafìco, il docente, lo scenografo l’autore teatrale, il traduttore, l’editore. Chi ha avuti la fortuna d’essere stato suo ospite nella casa-antro di Vulcano, al quarto piano di Via Galliari a Torino fra pile frananti di libri e superbe maschere africane, ha scoperto che egli è anche un cuoco di genio. È bene essere sempre cauti nell’usare superlativi e stilare classifiche, ma non è amicizia a farmelo collocare su un ipotetico podio olimpico della categoria. Il suo obiettivo non è quello marinista della meraviglia fine a se stessa, come tanti celebrati chef di oggi, che si compiacciono di stramberie ipertecnologiche, di accostamenti freddamente provocatori, quasi cinici, di piatti agghindati con un design supponente fino al ridicolo, Il suo tecnicismo non è fine a se stesso, fredda acrobazia, ma un semplice strumento, affinato con l’esperienza. E vita vissuta, memoria, sentimento. E amore per la vita, accettata nei suoi doni e nelle sue miserie.    Egi è uomo di lunghe radici, profondamente ancorate al territorio. Non un territorio specifico, orale, ma la Madre Terra tutta intera. Laddove c’è un uomo che celebra in nuove combinazioni il suo amore per le piante e gli animali con cui si ritrova a convivere, lì scatta il suo senso d’appartenenza e di fratellanza. Come gli uomini che molto hanno amato e sono stati amati, non frappone barriere tra sé e gli altri, tra sé e l’altro sino a risultare indifeso. Ma questa immediatezza d’amorosi sensi con la vita è di quelle che il lettore percepisce immediatamente.        Si farebbe prima a dire che cosa questo libro non è. Perché compendia in sé con assoluta naturalezza una sorprendente quantità di ingredienti. Ci sono le ricette d’ogni Paese (il Medio Oriente e l’Africa vi compaiono con un affetto speciale) o di tempi perduti (la moresca amalfitana, quasi del tutto scomparsa), tutte sperimentate in prima persona, che solo a leggerle ci pare già di navigare tra Rabelais e Gadda, come accade con il succulento piatto festivo delle isole di Capo Verde, la cachupa rica. Egi non arretra davanti alla preparazione di un tahulé, l’insalata libanese a base di grano hollito, per 50 persone. Piatti esotici convivono senza stridori con quelli in uso nella campagna torinese, come la minestra d’orzo perlato con mentastro dei pranzi di famiglia in occasione dei funerali di morti giovani. Perché vengono di lontano, sono "il costoso elaborato delle ere", come direbbe appunto Gadda, sono testatì da generazioni, fanno parte di una cultura non scritta che non è meno importante. Elaborazioni complesse si alternano ad altre di francescana semplicità e immediatezza.    Ma oltre alle ricette ci sono gli abbandoni, le confidenze, le libere divagazioni di un’autobiografia tenera e malinconica, fitta di svelti ritratti, che alle ricette si intreccia e anzi ne costituisce una integrazione. Non è un di più, ma serve a mettere il lettore-spettatre-gourmet-cuoco nella giusta disposizione di spirito, ad approfondire oltre piatti e fornelli il dialogo con l’autore. E una novità, non ho memoria di libri di cucina cosi combinati.  La stessa cosa sì può dire, delle posie, un delicato canzoniere amoroso che si offre come un insieme di note al testo, la sua naturale estensione. Sono divagazioni a loro modo necessarie anche i box narrativi che nascono da un’osservazione empatica e ironica, come quello dedicato alla cucina d’ospedale. O il racconto che evoca i panini con la frittata di erba di San Pietro che facevano alla stazione di Ceva negli anni ‘50. Altre sorprese vengono dalla gran copia di informazioni antropologiche, d’usi e costumi perduti, dai dettagli enciclopedici che spaziano dalla storia alla geografia, e vengono lasciati cadere con nonchalancee.Egi sa tutto. Sa che l’askipecia, lo scapece caro a quel genio multiversato di Federico Il, ghiotto di zuppe di verdura, minestre d’orzo e cacciagione, deriva dal persiano sikbaj, cibo trattato con aceto, già descritto nel più antico libro di cucina araba. Sembra essere in dimestichezza anche con la Tharida, il piatto festivo preferito dal Profeta che risale al VII secolo e si consuma ancor oggi, dall’Afghanistan all’Andalusia.   Come è diventata torpida la nostra curiosità. Quante cose non sappiamo, o non avevamo capito, o abbiamo omesso di approfondire. Quante altre si sono perse – la sapienza della cultura contadina e popolare, per esempio – travolte da una falsa modernità di cui adesso stiamo qui, percossi e attoniti, a piangere i cocci. Chi sa più che cos’era il potagé, "la cucina economica a legno", vero totem della nostra storia famigliare?   Sulla gustosa copia d’informazioni non si abbatte mai l’ombra dell’esibizionismo. Egi sembra piuttosto agitato, posseduto da una sorta di passione lucreziana per ogni forma della materia, per i suoi infiniti portenti. Ama toccare. fiutare, palpare, assaggiare con il sacro furore di una baccante. Quando maneggia i materiali della sua cucina insieme sontuosa e schiettamente popolare, immaginifica e terragna, ne parla con reverenza commossa e commovente. Pare uno sciamano intento a comunicare con divinità segrete. Il senso intimamente religioso che presiede ai traffici con il cibo sembra nascere da una conoscenza minuta, capillare, approfondita, tutta di prima mano.  Chi può dire di saper riconoscere la pispola, "uccello dalle piume gialle e olivastre, simile all’allodola", come recitano i dizionari? Eccola volare in stormi incontro al falco, nei versi di Egi: "La pispola dei prati non ha un canto/ che si faccia ricordare./ E una breve nota acuta/come un pìgolio più aspro,/sibilante e ripetuto tante volte/Ma in altro modo affascina chi l’osserva./ con il Suo gioco di morte". Insieme alle pispole, chi ha ancora occhi per i cardellini, le cannaiole, i fanelli, i lucherini, i gheppi della Baraggia che al pari delle pispole compaiono a sorpresa in quei versi, insieme alle pene dell’amor perduto, rievocato, vagheggiato? In Egi tutto si tiene in una sorta di contenuta letizia subalpina, mai sopra le righe.   Non c’è essere vivente che gli sembri indegno d’essere assimilato, in quella che si configura come una sorta di laica eucarestia. Non disdegna la patata di mare o nemmeno l’oloturia, anche detta "stronzo di mare". Certo, schizzinosi come siamo, abituati alla neutralità astratta di surgelati e hamhurger, ci fa un certo effetto sentir parlare delle interiora del capretto, dell’elegante capriolo del Congo ridotto a spezzatino, di ghiri farciti secondo l’antica ricetta di Apìcio, di tortore decapitate, amputate di zampette, eviscerate. Il raccapriccio si muta rapidamente in concupiscenza non appena le vediamo ripiene, spennellate di miele, avvolte nella pancetta. Ma il problema non è questo, non sono le nostre scissioni tra la pietà per quelle persone dabbene che sono gli animali e le delizie che ci offre il loro sacrificio. Se hanno da perire, in mano a Egi la loro immolazione rituale diventa un atto d’amore e di conoscenza. Un abbandonarsi al fiume cosmico del Tutto.  Egi sembra prediligere gli spezzatini, la franturnaglia, le frattaglie, perché è proprio lì, come già sapevano gli antichi, che si annida il sacro. È il Maestro delle Commistioni. Predilige e pratica le combinazioni in cui entrano decine di elementi, in grado di apportare ognuno una nota originale che pero non deve sopraffare le altre in pratica è come scrivere una sinfonia, o progettare un giardino. E un cultore di spezzettamenti, "disaggregazioni", ammollamenti, da eseguire con la delicatezza di un microchirurgo. Si concede "spolverii", decorazioni magiche: fiori di camomilla, frutti di corniolo, rondelle di peperoncino rosso, grappoli di ribes, foglie di coriandolo, petali di rosa canina "quasi bianca". Qui si vede benissimo l’occhio del pittore, il suo gusto sicuro. "Divèrtiti con queste minutaglie", prescrive lui al lettore con affetto quasi materno. Se cura con tanta competenza anche gli accessori minimi o gli abbinamenti con i vini, è perché sa, come diceva Einstein, che Dio si vede nei dettagli. Che dirti di più. caro Egi? Non finirai mai di stupirci. Grazie.

Ernesto Ferrero

A un amico si da sempre una mano – disse Sperandio
Una mano lava l’altra – aggiunse Giovenale
E tutte e tre lavano la faccia – sembrò concludere Zarrillo
Sarà stato, forse, nu lavoro a quatro mane – intuì Ermì
La mano che si porge è quella che impugna anche la spada – intimò Don Diego de Almagro
C’è spada e spada, eccheccazzo! – disse Zarrillo
Co la spada uno si taglia anca na man, magare – sentenziò Zambòn
E’ meglia na mano sola ca nisciuna – sancì Ermì
E’ meglio Berluscone ca Hitler – disse Billy o zamarro
Già – concluse Sperandio

   

      Poi il suo occhio andò ansioso all’orologio, al telefono, e ricordò l’appuntamento imperdibile con il suo favoloso Reverdin Paul.
Ebbe tutto il tempo, tuttavia, per la colazione, per telefonare a casa, senza manifestare troppi entusiasmi e per gironzolare ancora sulle rive del Rodano.
Là, poco dietro la Porte de la Cavalèrie, il gran fiume faceva larga curva, stazionavano sulle rive alcuni battelli. Mentre osservava un’imbarcazione lussuosa da crociera il pensiero di Bruno andò ai suoi mille viaggi immaginari e ai pochi in vero realizzati.
Si interrogò sul passato, sui suoi anni, su Cronos divoratore e si domandò che davvero facesse in quel luogo, se il motivo del suo spostarsi avesse un che di serio, una motivazione sostenibile dal desiderio di conoscenza o fosse mosso da una curiosità che confinava  con la sciocchezza, pura vanità.
Quando arrivò puntuale in Rue Portagnel, alla porta di casa Reverdin, si trovava piuttosto sconsolato, per di più, il suo referente non c’era o non era ancora arrivato dalla campagna. Suonò così a Madame Autran che affacciatasi lo riconobbe, allargò le braccia, fece smorfie, disse di aspettare. A Bruno non restò che restare in strada, andare avanti e indietro per quel marciapiede piuttosto guasto, e contare assiti, tubi da ponteggio, pietre divelte, squadrare numeri stradali disuguali, osservare stupito una anziana donna algerina tatuata in volto che si sporgeva furtivamente da un basso.
Gli balzò l’idea fulminea, la fantasia di essere capitato in un mondo “altro”, un luogo quasi fuori del tempo oppure di tangenza di epoche, impregnato di antico e nuovo, tutto diverso, lontano dal suo, così provinciale. Immaginò schiavi numidi alla costruzione de les Arènes, nubiani al lavoro nelle terme, materializzò torme di genti più varie che si mescolavano per le vie di Arelate ancora romana, sentì presente, più che mai, il ricorrere del passato in forme altre.

   

     Sono andato, come quasi tutti i dì, a vedere se c’era roba da leggere ‘nteressante dal mio amico Remo Bassini, cioè: http://remobassini.wordpress.com/.
Tra l’altro lui parla di amicizia, amici e Facebook o Sfaccimmbuk, come mi dicette ‘n sodale mio. Cioè: io sono andato a iscrivermi sul suddetto FB però dopo ‘na settimana già mi ero rotto, non capivo niente, mi arrivava (e mi arriva) un casino di spam (perché i tenutari di quel socialbordell non ti cancellano la e.mail davvero), mi arrivavano dichiarazioni di amicizia da sconosciuti e io mica ci rispondevo, anche perché, sia chiaro, io mi chiamo Mario Bianco, una delle accoppiate anagrafiche più riuscite e diffuse in Italia, e certi volevano fare o riallacciare amicizia, forse, con altri miei consimili di nomcognom, boh.
     Comunque dopo ‘sta settimana sfaccimbukkata mi cancellai e abbino loro la mala pasqua, ohh!!!
Remo dice pressappoco: io a certi faccio la dichiarazione di amicizia su FB e loro mi scrivono: Ci conosciamo?
Eh, già, anch’io se uno mi scrivesse su ‘sti siti: voglio fare amico….( come i bambini) ci risponderei: Ma chi sei, cosa vuoi, ci conosciamo?!
Ma mica perché sono superbo, no, ma perché se uno vuole contattarmi davvero non mi fa fittizie dichiarazioni di amicizia, ma mi scrive ‘na mail al mio indirizzo ch’è sempre lo stesso da più di dieci anni, forse da quindici.
No, un momento: perché io ci ho ‘na diffidenza pesante di contenuto su la parola amicizia: io ho degli amici veri da quando facevo le medie, degli amici solidali, perseveranti, veri di quelli che durano, di quelli fisici, che si toccano, mica immaginari o virtuali.
Io non sono andato a trovare mai, (eccetto che a Napoli da Didòla), “amici”conosciuti sul web, perché sono diffidente, perché, come disse la cara Maria Llu, che venne a trovarmi due volte dalla Galicia, lontana duemila miglia, “dopo una prima conoscenza sul web, la conoscenza reale spesso crea gran delusione”.
Temo di restare deluso o forse sono solo un orso.
Tant’è vero che di tutti i webbici amici/he, tanti, che mi sono venuti a trovare, non sono mai rimasto deluso. Anzi. Sono solo un orso, ecco.
Mai visto Pispa, Tashtego, Azu, mi dispiace, però.
Però visti Gino Tasca buonanima, Pantiloni, Didolaspendida, Boycotto il lisciotto, Angela Ravetta, Lavinia, la Zena, Bridget/Verdemare, Matisse, Flounder, Petarda, Rael, Remo Bassin’s, Marino Magliani, Herzog, E.l.e.n.a, Sphera, Franz Krauspenhaar, Biondillo, Marco Candida, Giorgio Vasta, il Furlen, Demetrio Paolin, Dipòk, Lemmalabel, Enrico Gregori, Gea, e altri che ora mi sfuggono da la capa, e mi scuso ecco.

Ma aggiungo qui man mano che mi vengono in mente.
Anche Anfiosso venne da me due volte, ma gli sto sulle palle, già.
Con alcuni di quelli di sopra sono entrato davvero in dimestichezza, cioè ci siamo visti più volte, abbiamo mangiato, bevuto insieme, passato ore a chiacchierare ci siamo trovati magari in empatia.
Vabbè, o cari amici, abbiatevi delle buone pasque, ecco!!!