Inserisco qui questo racconto illustrato dall’autore del 1927, di Alfred Kubin (1877-1959), che fu pittore e scrittore austriaco, singolare personaggio e conosciuto come esponente ( non molto noto) dell’Espressionismo, dal volumetto "Il dolce Aloisio" Sella e Riva editore, trad.Elisabetta Bolla 

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L’OTTICASTRO

Questa storia si svolse quando ero ancora apprendista nell’atelier di mio zio, un fotografo di valore. Ero quindicenne allora e avevo in Josef, il secondo apprendista un poco più giovane di me, un buon compagno. Soltanto quando s’era adempiuto al dovere quotidiano, noi si cominciava finalmente a vivere:
ci destreggiavamo e ci arrampicavamo su muri e tetti, o ci immergevamo nei libri che ci passava la biblioteca dell’associazione dei tipografi, dove avevamo qualche conoscenza. La lettura comune di questi scritti ameni, come per esempio Il Conte di Montecristo o romanzi avventurosi di quel tipo, ci esaltava e ci infiammava il cervello a tal punto, che ne recitavamo interi episodi. Poteva per esempio capitare che, una volta finito di riordinare insieme il camerino dei ritocchi e il laboratorio dopo l’orario di chiusura, io mi lanciassi all’improvviso come una tigre su Josef, lo afferrassi Per il collo, lo gettassi a terra e gridassi:
« Cane di uno sceriffo, come osi con le tue calunnie offendere l’onore della Contessa? », al che lui con un sorriso freddo e detestabile: « Sire! Guardatemi bene! Son cinquant’anni che questo grigio capo co-nosce soltanto il proprio dovere ». Poi all’improvviso venivamo presi da un’altra passione e vivevamo solo per quella, si trattasse di catturar gamberi o collezionar francobolli o allevar bruchi o altro. La vita interiore degli adolescenti è sempre alquanto confusa e ricca di idee pittoresche, e la fantasia promette in genere cento volte di più di quanto non possa poi mantenere la realtà.
Così mi rammento come una volta che mi trovavo nel locale di ricezione, dove c’erano alcune riviste illustrate, la mia attenzione venisse colpita in maniera insolita da un avviso nei « Fliegende Blàtter » monacensi. Diceva:

Tutti artisti con
L’OTTICASTRO
del dott. Stachura
Si tratta di un apparecchio per disegnare che permette anche ai meno dotati di disegnare su modelli o dal vero. Con questo miracoloso apparecchio, la cui ingegnosa costruzione lo rende adattabile a ogni occhio, si ottengono risultati più che stupefacenti. In una cassetta della più pregevole esecuzione, completo di tutte le sue parti e fornito di esaurienti istruzioni, ha il prezzo, comprensivo di spese postali, di marchi 7 e 50 centesimi. Da richiedersi soltanto dietro versamento anticipato al dott. Stachura, Berlino (e qui seguiva l’indirizzo preciso).

A lato di questo testo, in una minuscola vignetta pubblicitaria, si vedeva un signore inequivocabilmente abbiente che sedeva a un tavolo e che, attraverso un oggetto difficilmente riconoscibile simile a un monocolo con staffa, guardava, a quel che pareva, un lontano panorama d’alta montagna e disegnava. Cielo! un aggeggio così avrebbe proprio fatto al caso mio. Non mi toccava forse, a meno che lo zio, che aveva fiutato le mie doti, non fosse casualmente assente, copiare da modelli e spesso fino a tarda sera i più noiosi occhi, nasi, orecchie, bocche? Non so dire quale avversione provassi verso questo insulso metodo da cui non sarebbe mai nato nulla di buono. E ora da un misterioso dottor Stachura c’era un oggetto magico con cui era facile superare ogni difficoltà. Già, dipingere! Coloravo spesso fotografie, disponendo a caso e scegliendo allegramente i colori più vivaci. Questo mi sembrava ben facile se lo confrontavo all’insidioso disegno dove bisognava tracciare ogni linea con precisione.
In cuor mio ero già arcideciso: quell’apparecchio che eliminava fatiche e pene, con cui si ottenevano dei risultati stupefacenti, doveva esser mio! I mezzi li avevo: i miei risparmi ammontavano a circa sei marchi, il resto me l’avrebbe imprestato Josef, il quale, pur non avendo attitudine al disegno (era piuttosto uomo di teatro lui), capì lo stesso nel suo idealismo che qui si trattava di qualcosa di grande. E così spedii il denaro a Berlino.
E andai fluttuando per giornate di sogno. Soltanto chi è ancora in grado di ricordare tutto l’incanto di quell’ebbrezza che l’attesa sa creare nell’animo infantile mi potrà capire a fondo. Proprio la possibilità, l’incertezza di quel che m’avrebbe portato quest’invio mi riempivano di una gioia quasi incessante. L’annuncio me l’ero ritagliato dal foglio e me lo leggevo ogni momento, anche se ormai lo sapevo a memoria. Qual era il segreto che si nascondeva dietro ai miracolosi risultati dell’apparecchio? Che aspetto poteva avere? Immaginavo un congegno altamente sofisticato, con infinite rotelline, molle a spirale e lenti di cristallo. Il tutto sarebbe stato forse vagamente simile a un teodolite, come quello che si usa per le costruzioni stradali. E poi sette marchi e cinquanta erano un bel mucchio di quattrini e per una cifra così ragguardevole ci si poteva anche aspettare qualcosa di decente. Con gli adulti di casa non ne feci parola, non mi avrebbero mai capito con le loro opinioni strane. Così soltanto Josef sapeva ed era testimone della mia esaltazione e del mio stato di tensione davvero pazzesco.
Passammo in rassegna tutte le persone che in seguito m’avrebbero potuto far da modello e mettemmo insieme un bel numero di buone teste. All’uno o all’altro si sarebbe poi anche potuto far gradito omaggio d’un ritratto ben riuscito, io non sarei stato certo lì a lesinare. Dalla terrazza, il punto più elevato della casa, spaziando con lo sguardo oltre alcuni bei giardini e i tetti di una caserma di ussari, si vedevano in lontananza, sullo sfondo, le montagne, un panorama magnifico! Con l’aiuto dell’otticastro mi ripromettevo di farne un foglio grande, tutto ravvivato da mille particolari. Ma c’era di più. Nei caldi giorni estivi veniva drizzata nel cortile una tenda, nella quale lo zio era solito giocare ai tarocchi con i suoi ospiti. Davanti a questa tenda – io facevo già i miei piani – avrebbe posato per me in modo pittoresco uno Josef mezzo nudo con un turbante in testa e una serpe al collo. E poi magari avrei chiamato il foglio “Giocoliere indiano”;tanto le difficoltà nel disegnare non esistevano più. In breve, concertammo tutto fin nei minimi particolari e io assillai il povero Josef con le mie fantasticherie intorno ad almeno un centinaio di quadri che andavo progettando.
Otto o dieci giorni dopo che avevo spedito la mia ordinazione, il campanello mi chiamò in ufficio, dove la signorina della ricezione, che oltre alla sua funzione di ragioniera prendeva in consegna la posta quotidiana, mi disse che questa volta c’era qualcosa anche per me. Il mio sguardo indagatore aveva però già vagliato tutto quello che si trovava sul tavolo. Non c’era nessun pacco di cospicue dimensioni, né tantomeno la cassetta che mi aspettavo. Vidi soltanto un paio di lettere e un pacchetto piatto dall’apparenza assai modesta che la mano di un adulto avrebbe potuto coprire comodamente. Proprio questo mi vidi consegnare. Già, indubbiamente, veniva da Berlino! Con una certa costernazione lessi il mio nome e più in alto le parole: “Campione senza valore”. La signorina mi indirizzò un sorriso un po’ malizioso ma amichevole e io me ne andai a deporre per il momento questo pacchetto di una leggerezza fatale nella mia stanza. Lo volevo aprire dopo l’orario d’ufficio, al riparo dalla curiosità degli intrusi. Tutti gli impiegati mi chiesero della spedizione postale e se non si poteva vedere l’apparecchio. Risposi a tutti quelli che mi volevano stare a sentire che l’otticastro era un regalo che m’ero fatto per il mio comple-anno, di lì a due giorni, e che prima non l’avrei aperto. Dentro di me però tremavo dall’eccitazione e quasi non ce la facevo ad aspettare che l’atelier chiudesse. Ma infine anche l’attesa ebbe termine.


Il grande momento che mi aspettava era purtroppo già un po’ compromesso dalla preoccupante leggerezza e piccolezza del campione postale. Ma sia come sia tagliai lo spago, tolsi l’involucro e mi ritrovai in mano una scatola rivestita di carta zigrinata rossa. In caratteri d’oro era impressa per tutta l’estensione della scatola la scritta: «Otticastro». Nessun dubbio, si trattava della «pregevole cassetta ». In vita mia mi ha sempre interessato più il contenuto della confezione, per quanto lussuosa, e con tutta probabilità nessuno dei presenti all’apertura di una tomba faraonica recentemente scoperta si sarà mai sentito più emozionato di me in quel momento. La scatola conteneva:
1. Una matita appuntita, Faber B.B.B. punta media.
2. Due modelli della grandezza di carte da gioco che rappresentavano: una caffettiera e uno chalet svizzero.
Ora però, stupefatto lettore, ti chiederai giustamente, come feci io allora: ma, e quell’apparecchio, quella macchina, quello strumento dov’è? Ah già, c’era anche quello. Consisteva di: tre listelle di legno piatte tenute insieme da due viti. Infine, qual perla nell’ostrica, venne alla luce un pezzettino di vetro con tre spigoli, lungo circa un pollice. Mi si strinse il cuore alla vista di questo modestissimo contenuto. Fattomi piccolo piccolo scovai ancora sul fondo della scatola un foglietto stampato: le istruzioni per l’uso – ed ero così intento che quasi non avrei sentito il lieve bussare alla porta chiusa a chiave. Era Josef che chiedeva di venire ammesso. Anche lui ci rimase male, ma naturalmente era molto più distaccato di me, il legittimo proprietario. Insieme apprendemmo dalla descrizione che l’apparecchio consisteva delle leve ABC con le relative viti Al, Bl, C1. Che la vite Al terminava con la pinza destinata al prisma che a buon diritto poteva venir chiamato il vero occhio dell’apparecchio. Belle spacconate! Mi accorsi allora che il prisma aveva a intervalli regolari strisce riflettenti a specchio, come si leggeva nella descrizione. Se si voleva disegnare dal modello bisognava inserirlo nella fessura della leva C. L’inventore asseriva ora che a guardare l’immagine, ossia o il modello o l’oggetto naturale, attraverso il prisma, la si vedeva due volte: e cioè una volta nella realtà, di faccia, e una seconda volta specchiata di sbieco in basso dove si trovavano carta e mano dell’artista, il quale adesso poteva comodamente ricalcarne a matita i contorni. Soltanto che la cosa non era fattibile, le istruzioni di Stachura si rivelarono una spudorata bugia; era semplicemente impossibile disegnare la caffettiera in maniera pressoché riconoscibile strabuzzando gli occhi a quel modo. Provai allora a ritrarre Josef; lo misi a sedere davanti all’otticastro, e lui da bravo se ne stette davvero così immoto e pesante che pareva un sacco pieno di farina. Il veder doppio – anzi io lo vedevo addirittura triplo, e cioè anche di sbieco in alto – indolenziva l’occhio, senza contare che il viso della povera cavia slittava nel prisma fino a ridursi a una caricatura ebete. Sarebbe stato un pezzo di bravura riuscire a combinar qualcosa con quegli espedienti che più che altro erano d’impiccio.
Con mio indicibile dolore dovetti prender atto che l’invenzione di Stachura era una vilissima truffa ai danni di creduloni come me; perché il valore effettivo della scatola e del suo contenuto non superava, neppure ad una valutazione ottimistica, il marco. Né tutti gli altri tentativi che feci il giorno dopo con quel coso sortirono esiti migliori, cosicché all’imbrunire, furibondo, presi e andai ad affondare scatola e otticastro nel vicino canale cittadino.
(1927)